Scopo dell’incarico ricevuto dalla Commissione , presieduta da Stefano Rodotà, era quello di riformare la disciplina codicistica dei beni pubblici, mai modificata dal 1942 sino ad oggi, nonostante l’entrata in vigore della Costituzione e le trasformazioni sociali ed economiche, nonché scientifiche e tecnologiche, intervenute da allora fino ai giorni nostri.
La Commissione, nel lavorare al progetto normativo, ha inteso tra l’altro valorizzare, in linea con la concezione oggettiva di pubblica amministrazione e di attività amministrativa accolta dalla nostra Costituzione, la regola per cui la destinazione pubblica dei beni può essere assicurata a prescindere dalla loro appartenenza a un ente pubblico, mediante la previsione di un vincolo oggettivo di destinazione gravante sui medesimi beni.
È stata dunque tenuta presente una nozione di “bene pubblico in senso oggettivo”, cioè una nozione di bene che rimane tale, grazie al vincolo di destinazione gravante sullo stesso, anche se formalmente “privatizzato” e commerciabile tramite negozi privatistici; un bene quindi che, nonostante la sua appartenenza non necessariamente pubblica, continua a non essere sottraibile alla sua destinazione istituzionale (tranne i casi in cui ciò accada per eventi naturali o fortuiti) se non per scelta dell’amministrazione, a essere sottoposto a regolazione da parte dei pubblici poteri e ad essere proteggibile mediante appositi poteri amministrativi di tutela esecutiva.
Intendendo superare la categorizzazione dei beni codificata nel 1942, anche per individuare chiaramente le specie dei beni realmente insuscettibili di appartenere a soggetti privati e quelle invece dei beni a destinazione pubblica potenzialmente appartenenti pure a soggetti privati, i componenti della Commissione hanno elaborato un testo normativo che prevede la soppressione delle categorie del demanio e del patrimonio indisponibile e la redistribuzione delle specie dei beni ad esse attualmente ascrivibili in nuove categorie, tra le quali spicca quella dei “beni comuni” (i cd. commons).
I beni comuni sono quei beni a consumo non rivale, ma esauribile, come i fiumi, i laghi, l’aria, i lidi, i parchi naturali, le foreste, i beni ambientali, la fauna selvatica, i beni culturali, etc. (compresi i diritti di immagine sui medesimi beni), i quali, a prescindere dalla loro appartenenza pubblica o privata, esprimono utilità funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali e al libero sviluppo delle persone e dei quali, perciò, la legge deve garantire in ogni caso la fruizione collettiva, diretta e da parte di tutti, anche in favore delle generazioni future.
Nello schema di d.d.l. si è previsto che, ove la proprietà di questi beni sia pubblica, gli stessi siano collocati fuori commercio, salvi i casi in cui la legge consenta la possibilità di darli in concessione, per una durata comunque limitata.
Si è poi stabilito che alla tutela giurisdizionale dei diritti connessi alla salvaguardia e alla fruizione dei beni comuni abbia accesso chiunque, oltre a prevedersi una legittimazione dello Stato all’azione risarcitoria per i danni arrecati ai medesimi beni.
L’introduzione della categoria dei beni comuni appare dunque rispondere all’affermazione del principio di sussidiarietà declinato nella sua dimensione “orizzontale”, di cui all’art. 118, ultimo comma, della Costituzione.
Anche per questo si deve quindi auspicare che il Governo si ricordi di dare seguito al progetto di riforma elaborato dalla Commissione Rodotà.
Per un approfondimento sui lavori della Commissione Rodotà e sullo schema di d.d.l. da questa elaborato, si v. M. Renna, Le prospettive di riforma delle norme del codice civile sui beni pubblici, nel volume collettaneo I beni pubblici tra regole di mercato e interessi generali. Profili di diritto interno e internazionale, a cura di G. Colombini, Napoli, Jovene, 29, nonché nel n. 1/29 della rivista Il diritto dell’economia.