Ancora non riusciamo ad accettare l’idea che l’Italia sia diventata terra di immigrazione, eppure i dati sono chiari:
– 4 milioni e 33 mila cittadini stranieri presenti regolarmente, pari al 7,2% della
popolazione italiana;
– 2 milioni di lavoratori, che concorrono alla creazione della ricchezza del “sistema Italia” e
ogni anno aumentano per supplire alle carenze della forza lavoro;
– 862 mila minori figli di genitori stranieri, un decimo della popolazione minorile, che giustamente considerano l’Italia la loro terra;
– 629 mila presenze a scuola in rappresentanza di tanti paesi, un vero e proprio mondo in
classe;
– oltre 1 mila persone che vengono ogni anno in Italia per ricongiungimento familiare nell’ottica
di un insediamento stabile;
– 4 mila persone che acquisiscono annualmente la cittadinanza italiana, a seguito di
matrimonio o di anzianità di residenza, mostrando un forte attaccamento al nostro Paese;
– 24 mila matrimoni misti tra italiani e immigrati, che costituiscono una frontiera complessa e promettente per la convivenza tra persone di diverse tradizioni culturali e
religiose;
– circa 6 mila studenti stranieri che si laureano annualmente in Italia, in buona parte destinati
a diventare classe dirigente nel Paese di origine (dal Rapporto Caritas Migrantes 2009).
Non immigrati, eppure stranieri
Ma il dato forse più indicativo del cambiamento intervenuto nel nostro paese riguarda i figli di genitori stranieri residenti in Italia. Nel 2001 erano 128 mila, oggi 862 mila, di cui circa 457 mila nati in Italia. Di questi, 72.472 sono nati nel 2008.
Rispetto ai loro genitori essi rappresentano la “seconda generazione”, destinata nei prossimi anni ad aumentare in misura ancora più rilevante, non solo per effetto dei crescenti flussi migratori in entrata ma anche per il più alto livello di fecondità degli stranieri rispetto agli italiani.
Questi ragazzi e queste ragazze sono nati qui, non sono immigrati. Eppure per le leggi italiane sono stranieri, perché stranieri sono i loro genitori. Non vengono da altri paesi, non hanno attraversato frontiere, loro sono qui fin dall’inizio della loro vita, come i nostri figli. Ma in quanto figli di stranieri fra loro e noi c’è una frontiera invisibile, che separa la parte della società italiana composta dagli stranieri dalla parte composta dai cittadini. E questa frontiera è costituita dalla cittadinanza, quell’insieme di diritti e di doveri che marcano la differenza fra “loro” e “noi”.
Il “diritto ad avere diritti e doveri”
L’art. 15 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo afferma che “Ogni individuo ha diritto ad una cittadinanza. Nessun individuo potrà essere arbitrariamente privato della sua cittadinanza, né del diritto di mutare cittadinanza”.
A sua volta l’art. 22 della nostra Costituzione dispone che “Nessuno può essere privato, per motivi politici, della capacità giuridica, della cittadinanza, del nome”, implicitamente riconoscendo anch’esso un diritto alla cittadinanza.
Tutti hanno diritto alla cittadinanza, ma la cittadinanza non è un diritto, bensì uno status fondato sulla relazione fra un individuo e una comunità.
“Cittadinanza” è il termine con cui si indica il rapporto politico fondamentale fra l’individuo e l’ordine politico-giuridico nel quale egli si inserisce, nonché i diritti ed i doveri, le aspettative e le pretese che da tale rapporto derivano (per un approfondimento su questi temi v. G. Arena, Immigrazione e cittadinanze).
Ma se cittadino è colui o colei che ha diritti e doveri nei confronti dell’ordine politico-giuridico nel quale si inserisce, allora si può dire che il diritto alla cittadinanza consiste in realtà nel “diritto ad avere diritti e doveri”. In altri termini, è come se l’art. 15 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo affermasse che “Ogni individuo ha diritto ad avere i diritti ed i doveri che derivano dall’essere cittadino”, a loro volta riconducibili a tre grandi categorie: diritti civili, diritti sociali e diritti politici.
Italiani si diventa
I ragazzi e le ragazze della “seconda generazione” hanno i diritti civili e quelli sociali, ma non hanno quelli politici, perché la legge dice che sono stranieri. Ma lo sono veramente? In che cosa sono diversi dai nostri figli? Frequentano le stesse scuole, parlano con le stesse inflessioni dialettali, ascoltano la stessa musica, fanno il tifo per le stesse squadre di calcio, hanno gli stessi sogni per il loro futuro e le stesse difficoltà a farsi capire da noi adulti.
Spesso non conoscono la terra da cui sono venuti i loro genitori, in compenso hanno assimilato i valori, le memorie ed i legami di questo nostro paese, in cui sono nati e cresciuti ed in cui si sentono a casa.
Questi giovani sono diventati italiani seguendo lo stesso percorso di crescita e di integrazione dei nostri figli. Si sentono e di fatto sono italiani, ma non possono diventarlo anche sul piano formale se non al termine di una defatigante procedura per l’acquisto della cittadinanza i cui requisiti sembrano fatti apposta per tenerli il più possibile “fuori”. Eppure loro sono già “dentro”, fanno già parte della nostra comunità, più di certi se-dicenti cittadini italiani che si comportano veramente, loro sì, come stranieri in questo paese.
Cittadinanza e integrazione
Per gli immigrati l’acquisto della cittadinanza va considerato come il punto di arrivo di un percorso di integrazione che, iniziato al momento dell’ingresso in Italia, mira a trasformare degli stranieri in italiani. I giovani nati e cresciuti qui, invece, italiani lo sono già. Lo sono diventati senza accorgersene, nella maniera più naturale possibile, giorno dopo giorno. Per loro non è stata una scelta, come per gli immigrati, bensì un semplice ed inevitabile modo di essere.
Il cuore del problema della cittadinanza è dunque l’integrazione. Per quanto riguarda gli immigrati lo si affronta soprattutto agendo sulle regole riguardanti l’immigrazione e sulle condizioni di vita e di lavoro degli immigrati; l’accesso al mercato del lavoro, ai servizi sanitari e sociali, all’istruzione, alla previdenza, alla casa, le politiche familiari, etc. sono tutti elementi essenziali per trasformare nei fatti degli stranieri in italiani.
Una volta però che questa trasformazione sia avvenuta bisogna che le modalità di acquisto della cittadinanza da parte degli immigrati siano il più possibile tali da facilitare la coincidenza fra la cittadinanza formale e quella cittadinanza in senso sostanziale la cui presenza costituisce il motivo stesso della richiesta di accesso alla cittadinanza formale.
Bisogna cambiare la legge
Se questo è vero per gli immigrati, tanto più deve essere vero per i giovani nati qui da genitori stranieri. E’ indispensabile, nell’interesse sia loro, sia dell’intera comunità nazionale, che ci sia il massimo di coincidenza fra la loro cittadinanza sostanziale e la cittadinanza formale. E questo si può ottenere, secondo quanto previsto dalla proposta di legge Granata-Sarubbi attualmente all’esame della Camera dei deputati, modificando la legge sulla cittadinanza integrando il principio dello ius sanguinis, che fin qui ha regolato l’acquisizione della cittadinanza in Italia, con l’altro grande principio dello ius soli.
In tal modo otterrebbe automaticamente la cittadinanza italiana sia il minore nato in Italia da genitori stranieri di cui almeno uno legalmente soggiornante da almeno cinque anni, sia lo straniero che, nato in Italia o arrivato prima di aver compiuto i cinque anni di età, vi ha legalmente soggiornato fino al raggiungimento dei diciotto anni.
L’unificazione continua
Nel 2011 cade il 15° anniversario dell’Unità d’Italia. E’ una buona occasione per riflettere sul processo avviato nel 1861 e tuttora in corso.
All’epoca, l’unificazione consistette essenzialmente nell’annessione di nuovi territori, fino a formare un nuovo Stato. Poi il processo di costruzione della nazione continuò a svilupparsi fino ai giorni nostri, anche attraverso tragedie collettive come la Prima Guerra Mondiale o momenti di sviluppo come il “miracolo economico”.
Riconoscere ai giovani nati e cresciuti nel nostro paese il diritto ad essere italiani non solo di fatto, come già avviene, ma anche formalmente, significa capire che il processo di unificazione nazionale oggi continua aggregando non più, come nel 1861, nuovi territori, bensì nuovi cittadini.
Sono gli abitanti di una nuova regione virtuale, una regione che non si trova sulle carte geografiche eppure conta oggi ben 862 mila abitanti, tanti quanti sono i ragazzi e le ragazze nati qui o arrivati qui da piccoli. Non sono stranieri, ma lo diventeranno se non saremo abbastanza lungimiranti e generosi da abbattere la barriera invisibile che li separa da noi.