E abbiamo pubblicato dal 2006 ad oggi decine di casi che mostrano come i cittadini possano e sappiano prendersi cura dei beni comuni presenti sul proprio territorio.
Per quanto riguarda i cittadini attivi, cioè i soggetti della sussidiarietà , ormai abbiamo consolidato un buon patrimonio di interpretazioni e di materiali di tutti i generi, dalle sentenze alla documentazione, dai casi ai saggi. Lo stesso volume curato da Arena e Cotturri in questi giorni in libreria con l’editore Carocci, intitolato Il valore aggiunto (Come la sussidiarietà può salvare l’Italia) in gran parte ruota proprio intorno ai soggetti della sussidiarietà , cioè i cittadini attivi.
Continueremo ovviamente ad occuparci di cittadini attivi, solo che da qualche tempo, in concomitanza con la partenza a Roma del progetto “Scuola di manutenzione civica dei beni comuni”, abbiamo cominciato ad occuparci più a fondo anche dei beni comuni di cui i cittadini si prendono cura.
Sono due punti di vista complementari, uno concentra l’attenzione sull’oggetto, i beni comuni, l’altro sul soggetto, i cittadini.
I beni comuni, un valore centrale
Perché riteniamo che arrivati a questo punto del nostro cammino sia importante concentrare l’attenzione sui beni comuni, oltre che sui cittadini attivi che di questi beni si prendono cura?
La risposta la fornisce Carlo Donolo nel primo dei suoi editoriali dedicati appunto ai beni comuni: ” … perché siamo convinti che i beni comuni stanno assumendo un valore centrale per la nostra vita comune e per le prospettive della nostra società nel contesto globale … i beni comuni sono centrali per ogni processo sostenibile, per lo sviluppo locale, per la coesione sociale, per i processi di capacitazione individuale e collettiva … la stessa sussidiarietà è in primo luogo capacitazione al governo di beni comuni ” .
Continua Donolo: ” …nelle nostre società si afferma una tendenza quasi violenta nel trasformare tutto quanto è pubblico, comune, condiviso, in bene appropriato, privatizzato. Per ragioni che sono legate sia ai processi di accumulazione su scala globale, sia alla particolare configurazione dell’individuo ipermoderno, fondamentalmente utilitarista ed acquisitivo ” . Ma ” le società per persistere nel tempo e non sfaldarsi rapidamente in modo entropico hanno bisogno di un legante condiviso, per quanto minimale, variamente identificato nelle varie dottrine. Ma sempre con riferimento a un elemento di condivisione, comunanza, compartecipazione. Nelle società in cui il soggetto individuale si è emancipato non solo da molti legami sociali pregressi e spesso obsoleti, ma anche in generale dall’idea che ci sia qualcosa che lo leghi al destino degli altri, è diventato molto più difficile identificare il fattore aggregante e il collante ” .
“Beni necessariamente condivisi”
Donolo approfondisce la sua analisi definendo i beni comuni come ” un insieme di beni necessariamente condivisi. Sono beni in quanto permettono il dispiegarsi della vita sociale, la soluzione di problemi collettivi, la sussistenza dell’uomo nel suo rapporto con gli ecosistemi di cui è parte. Sono condivisi in quanto … essi stanno meglio e forniscono le loro migliori qualità quando siano trattati e quindi anche governati e regolati come beni ‘in comune’, a tutti accessibili almeno in via di principio.
Sono condivisi anche in un senso più forte, in quanto solo la loro condivisione ne garantisce la riproduzione allargata nel tempo, e almeno per un nucleo più duro di beni comuni ‘essenziali’, se non condivisi la vita sociale diventa insostenibile fino a un punto di catastrofe. La rilevanza dell’aggettivo ‘comune’ viene enfatizzata dal dato di fatto che i processi dominanti oggi a livello locale e globale sono invece centrati su appropriazione, privatizzazione e sottrazione alla fruizione condivisa di tantissimi di questi beni. Da qui l’inevitabile conflitto sullo statuto dei beni comuni, un tema questo che – tanto per capirci – ha oggi lo stesso rilievo che potevano avere a metà Ottocento la lotta di classe e il socialismo ” .
Il difficile statuto dei beni comuni
A questo punto è chiaro perché riteniamo non solo doveroso, ma addirittura urgente, occuparci di beni comuni oltre che di cittadini attivi. Perché c’è un conflitto in atto intorno allo statuto dei beni comuni, un tema che secondo il massimo studioso italiano di queste tematiche ” ha oggi lo stesso rilievo che potevano avere a metà Ottocento la lotta di classe e il socialismo ” .
In questa fase abbiamo più domande che risposte, più dubbi che soluzioni. Ma vogliamo almeno cominciare a delineare un percorso, di cui questa è solo la prima tappa.
I beni secondo il Codice Civile
Una prima, ma fondamentale, questione riguarda la possibilità di applicare ai beni comuni la definizione che dei beni fornisce il Codice civile del 1942.
Nel libro Terzo del Codice, intitolato ” Della proprietà ” , al Capo I del Titolo I, intitolato ” Dei beni in generale ” , all’art. 81 si legge infatti questa definizione: ” Sono beni le cose che possono formare oggetto di diritti ” .
Questa definizione si adatta sia ai beni privati sia ai beni pubblici (intesi come beni dello Stato e degli altri poteri pubblici), in quanto entrambi possono essere oggetto di diritti da parte rispettivamente di soggetti privati e soggetti pubblici. Ma si adatta anche ai beni comuni, che non sono appunto né pubblici né privati? Possono in sostanza i beni comuni essere oggetto di diritti? Ed eventualmente chi possono essere i soggetti titolari di diritti nei confronti di questi beni? E chi sono i soggetti obbligati nei confronti di tali eventuali soggetti titolari?
Non è un caso se il libro del Codice civile al cui interno si colloca la definizione dei beni vigente nel nostro ordinamento si intitola ” Della proprietà ” . E’ evidente infatti che il concetto di ” bene come oggetto di diritti ” è strettamente legato alla antica concezione del diritto di proprietà come ius utendi ed abutendi, cioè come diritto del proprietario di usare e persino abusare del proprio bene. Una concezione che se forse può andare ancora bene per il diritto di proprietà sui beni privati non può certo essere applicata ai beni comuni. Chi mai infatti può vantare il diritto di ” usare ed abusare ” dei beni comuni? Non certo soggetti privati, ma nemmeno soggetti pubblici.
Una nuova lettura dell’art. 81 C.C.
D’altro canto se escludiamo che ai beni comuni possa applicarsi la definizione dei beni di cui all’art. 81 del Codice civile rischiamo di proiettare i beni comuni fuori dalla categoria dei beni, in un limbo pericolosamente indistinto. Bisogna dunque aggiornare la lettura di quella definizione alla luce dell’art. 118, ultimo comma e dell’art. 3, 2 ° comma della Costituzione.
Se i beni comuni sono beni né pubblici né privati, i diritti di cui possono essere oggetto ai sensi dell’art. 81 Cod. Civ. non possono essere gli stessi di cui sono oggetto i beni pubblici e quelli privati. In particolare, non possono essere oggetto di diritti di proprietà da parte di soggetti pubblici e tanto meno da parte di soggetti privati.
Possono invece essere oggetto di diritti di custodia, sia da parte di soggetti pubblici sia da parte di soggetti privati. Se infatti i beni comuni sono, come ci dice Donolo, beni che ” permettono il dispiegarsi della vita sociale, la soluzione di problemi collettivi, la sussistenza dell’uomo nel suo rapporto con gli ecosistemi di cui è parte ” , l’unico atteggiamento che noi possiamo avere nei loro confronti è quello di chi li ha in custodia, non di chi li possiede. Noi siamo i custodi, non i proprietari, dei beni comuni. Possiamo goderne, ma non fino al punto da rendere impossibile un uguale godimento di tali beni da parte del resto dell’umanità e delle generazioni future.
In questa prospettiva i beni comuni rientrano nella definizione dell’art. 81 Cod. Civile, purché si qualifichino i diritti di cui possono essere oggetto partendo dall’assunto secondo il quale i titolari di tali diritti sono i custodi dei beni, il proprietario essendo la comunità intesa nel senso più ampio del termine: comunità territoriale, comunità nazionale, umanità presente e futura.
Beni comuni, pubblici e privati
Quali sono dunque i diritti che possono essere esercitati nei confronti dei beni comuni, e da chi?
La Commissione Rodotà nel 28 propose di distinguere i beni in beni comuni, beni pubblici e beni privati. E definìi beni comuni come ” le cose che esprimono utilità funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali nonché al libero sviluppo della persona ” . Secondo questa definizione, pertanto, i beni comuni sono cose (materiali ed immateriali) che possono essere oggetto dell’esercizio dei diritti fondamentali dell’uomo (v. Costituzione della Repubblica e Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo) e degli altri diritti funzionali al libero e pieno sviluppo della persona umana (art. 3, 2 ° comma Costituzione). Tutti, cittadini e non cittadini, possono esercitare tali diritti nei confronti dei beni comuni, in quanto i beni comuni sono indispensabili per una qualità della vita degna di un essere umano.
Due nuove categorie di diritti
Accanto ai soggetti titolari di questi diritti (per cosìdire ” esistenziali ” ) nei confronti dei beni comuni, soggetti cioè che si limitano a godere delle utilità fornite dai beni comuni per il proprio sviluppo e benessere personale, vi sono altri soggetti che ritengono che nella funzione di custode dei beni comuni rientri anche la responsabilità di prendersi cura di tali beni, arricchendoli e sviluppandoli, con vantaggio per se stessi e per gli altri.
Questi sono appunto i cittadini attivi che, come recita l’art. 118 ultimo comma Costituzione, svolgono attività di interesse generale, prendendosi cura dei beni comuni.
In questa prospettiva si può allora dire che i cittadini attivi esercitano nei confronti dei beni comuni dei ” diritti di cura ” , non di proprietà , attraverso l’esercizio di quella libertà solidale e responsabile che costituisce oggi il nuovo modo di essere cittadini. E questi ” diritti di cura ” rientrerebbero a pieno titolo nella cosiddetta ” terza generazione ” dei diritti dell’uomo, dopo i diritti di libertà ed i diritti sociali. Diritti non egoistici, risultato di un’evoluzione sociale e culturale che trova nell’art. 2 della Costituzione intesa come ” norma aperta ” il suo fondamento costituzionale.
Si pone qui inevitabilmente un’altra questione, che non è però il caso di affrontare in questa sede. Se i cittadini attivi sono titolari di ” diritti di cura ” nei confronti dei beni comuni, si può affermare che, di conseguenza, il ” favoriscono ” dell’art. 118 ultimo comma configura un obbligo delle pubbliche amministrazioni nei loro confronti?
L’autore ringrazia gli studenti del suo corso di ” Istituzioni, sussidiarietà e nuova cittadinanza ” presso la Facoltà di Economia dell’Università di Trento, le cui osservazioni sono state di grande utilità nella stesura di questo testo.
Peraltro, chiunque abbia avuto la pazienza di leggere fin qui si sarà reso conto della complessità del tema. Sono dunque più che benvenute critiche e integrazioni che possano contribuire a portare avanti la riflessione, scrivendo a contatti@labsus.org