Cameron ha dichiarato, tra l’altro: “questa terra è piena di talenti inespressi, di uomini e donne in grado di guidare la propria vita. Stimoleremo il volontariato, la filantropia e l’azione sociale. Ci sono cose che un primo ministro fa perché il dovere lo chiama, ridurre il debito è una di queste. Altre, come la Big Society, perché sono il cuore e la passione a spingerlo”.
Immediatamente, l’Economist ha offerto molto volentieri il proprio endorsement. Il che non stupisce se si pensa che per l’autorevole periodico britannico l’ultimo governo laburista è stato responsabile di politiche di spesa eccessive. E l’azione del premier uscente Gordon Brown è stato stigmatizzata per essere quella di un socialista vecchio stampo. Viceversa, nella visione di Cameron, la comunità locale e la società civile rappresentano la dimensione più adatta a supportare l’individuo, lo strumento migliore per consentire alle persone di attivarsi in modo snello, senza burocrazie, per affrontare al meglio le diverse necessità di ognuno.
Il "potere alla gente", uno degli slogan più accattivanti di Cameron, significa proprio che le persone e le associazioni di cittadini possono gestire da sole una serie di funzioni che normalmente erano monopolio dello Stato. E questo sembra avere la forza di rompere i tradizionali steccati ideologici e le vecchie distinzioni tra destra e sinistra. Anche perché evidenti tracce di autonomia del sociale rispetto al politico sono presenti in tutte le culture politiche, siano esse di impronta progressista o conservatrice. Ovviamente, però, le cose sono sempre più complesse di quanto appaiano.
I tagli alla spesa pubblica
In primo luogo, l’impulso per la Big Society deve essere contestualizzato in una congiuntura molto dolorosa caratterizzata dalla scelta del governo di ridurre l’ enorme indebitamento subito e a dosi massicce. Il Gabinetto di Cameron ha in programma tagli della spesa pubblica fino al 4% in molti settori, tagli che costringeranno la gente a pagare di più per i servizi pubblici, a prolungare la vita lavorativa, ad avere in futuro pensioni più basse. Su questo punto le critiche del Labour in patria, ma di tutte le sinistre in Europa e in Italia sono molto violente. Critiche che hanno colpito anche il Cancelliere dello Scacchiere George Osborne, accusato di populismo per aver chiesto a tutti i cittadini di fare le loro proposte su come tagliare la spesa pubblica utilizzando un sito dedicato. Proprio l’opposizione laburista ha criticato questa mossa, “pensata per ingannare la gente e far credere che ci sia sostegno popolare ai tagli alla spesa previsti dal governo”. Agli inglesi però l’idea è piaciuta: la Spending Challenge è partita il 24 giugno e da allora ha ricevuto 1mila suggerimenti tra cui 45mila proposte concrete e dettagliate su come risparmiare, eliminando quelle attività amministrative che risultano inutili, superflue e costose. I consigli sono stati passati ai rispettivi ministeri per essere valutati.
Il welfare che dobbiamo aspettarci
In secondo luogo, comincia a farsi strada l’idea che il ciclo sessantennale di crescita delle democrazie occidentali si sia interrotto e che i nostri presupposti di ricchezza, agiatezza e servizi sociali debbano essere riconsiderati. L’ attuale crisi finanziaria c’entra poco. Difficilmente godremo ancora di quella ricchezza e di quella forza che ci hanno consentito di costruire generosi sistemi di welfare, semplicemente aumentando tasse e spesa pubblica. Gli Stati del mondo sviluppato non avranno i fondi necessari per tenerli in piedi. Tutti i governi, di qualunque colore politico, dovranno chiedere una maggiore compartecipazione dei cittadini, un aumento di responsabilità sociali di persone e imprese, maggiori capacità di fare e di produrre servizi, maggiore indipendenza dall’assistenza pubblica, uno sforzo collettivo per costruire nuovi legami sociali. Molto probabilmente, la Big Society si basa anche su questo calcolo.
In realtà, è molto difficile capire oggi se quello di Cameron sia soltanto uno slogan per far digerire importanti tagli nel pubblico impiego e nell’assistenza statale. Così come è difficile dire, nel caso in cui viceversa vi fossero delle intenzioni serie, se questa sfida sarà vinta. Certo è, però, che la cultura politica britannica ci pare storicamente più attrezzata rispetto a quella italiana per affrontare il tema del trasferimento di poteri e responsabilità dallo Stato ai cittadini.
Le condizioni per affrontare la sfida con successo
Esistono almeno tre condizioni perché un obiettivo di questa portata possa essere affrontato e raggiunto.
La prima condizione è l’esistenza di una diffusa dimensione civica nel paese. Non si parla qui di senso civico o di virtù civiche per le quali è sempre assai complicato compiere delle valutazioni oggettive. In questo caso, per dimensione civica si intende quell’ambiente favorevole (atteggiamenti, comportamenti, visioni della realtà, tecnologie, prassi, modelli organizzativi, schemi professionali, clima di accoglienza e di fiducia, norme e regole) alla presenza e alla azione dei cittadini nella vita pubblica. In tal senso, in Italia esiste una profonda dicotomia, per esempio, tra l’elevato livello di fiducia che la popolazione esprime nei confronti delle organizzazioni civiche e le diffidenze culturali, le barriere corporative e le prassi inibitorie che i ceti dirigenti nazionali (nelle professioni, nei media, nelle università, nelle amministrazioni e nella politica) esercitano nei confronti dell’attivismo civico.
La seconda condizione è l’esistenza di organizzazioni civiche capaci di assumersi poteri e responsabilità nella sfera pubblica, partecipando alla elaborazione, implementazione e valutazione delle politiche. Da questo punto di vista, le notizie sono certamente incoraggianti. Come dimostrano anche studi importanti, il fenomeno della cittadinanza attiva in Italia è cresciuto tantissimo negli ultimi anni, sia quantitativamente che qualitativamente, soprattutto al Sud. L’Italia può contare su associazioni di promozione sociale, realtà del volontariato, organizzazioni di tutela dei diritti, movimenti ambientalisti, capaci di esercitare un forte impatto in molti settori cruciali della vita quotidiana: asistenza sociale, tutela ambientale, qualità dei servizi e via elencando. Nella prospettiva della Big Society resta, però, un importante elemento di debolezza, evidenziato già nel 28 dalla prima edizione del Civil Society Index, che è la mancanza di risorse (strutturali, economiche, finanziarie, tecniche, ecc.). Risorse senza le quali è assai difficile che la “society” possa davvero diventare “big”.
La terza condizione necessaria è l’esistenza di istituzioni politico-amministrative efficienti ed efficaci. Perché davvero lo Stato sia in grado di raccogliere la sfida della Big Society è necessario che sia sollevato dal peso delle sue stesse burocrazie e che queste aumentino la loro produttività, senza sprechi e in un contesto di trasparenza. Argomenti apparentemente scontati, ma sappiamo quante resistenze vi si oppongano. Ma c’è di più e si tratta di una questione dirimente: gli apparati politico-amministrativi dovrebbero essere principalmente “catalizzatori” e “capacitatori”. In altri termini, la loro mission principale dovrebbe essere proprio l’empowerment dei cittadini. Nulla di strano, in teoria, se si pensa che questa mission è scritta con estrema chiarezza nell’art.118, ultimo comma della Costituzione. Molto complicato, nei fatti, perché significa chiedere allo Stato – e ai ceti che ne beneficiano – una diminuzione di poteri ed un aumento di responsabilità che nessuna classe dirigente – di destra o di sinistra – è in grado di accettare.
Il dibattito in Italia
Invece di occuparsi di questi temi, il dibattito sulla Big Society si è subito ridotto a poca roba. La maggioranza degli osservatori guarda con distacco, come fosse un fioco riflesso di culture e paesi lontani. Un’ampia zona grigia di potenziali attori se ne disinteressa, compresi quei segmenti di progressismo politico che dovrebbero avere più coraggio nel raccogliere le novità insite in sfide siffatte. E così, alla fine, si creano i due partiti estremi.
Da una parte, i critici (a priori) che vi leggono il solito tentativo di smantellare lo stato e di tagliare posti pubblici. Tra questi, purtroppo, molte persone di quella sinistra che dovrebbe addirittura menar vanto di una certa tradizione di autonoma iniziativa del sociale rispetto al politico e che dovrebbe apprezzare, in contrasto con le logiche di mercato, l’idea di auto-organizzazione dal basso nel governo di beni comuni. E che invece appare spaventata dalla progressiva fine del dirigismo e del centralismo amministrativo: la Big Society sarebbe un trucco usato per coprire drastici tagli con la retorica del nuovo civismo.
Dall’altra, stanno i tifosi che cantano le magnifiche sorti e progressive della proposta, spesso allo scopo di giustificare un approccio alla sussidiarietà che resta assai discutibile. In verità, nei teorici – ma verrebbe da dire, con appena un pizzico di polemica, nei “pratici” – di questa posizione, la società civile si dispone secondo modalità corporative di gestione e offerta di beni comuni: nel campo si muovono soggetti quasi profit che presumono di garantire la libertà di scelta degli utenti, ma che in realtà stabiliscono nuove forme di discriminazione di fatto. In più, lo Stato, che pure apparentemente si ritira dall’intervento diretto nell’offerta di tali beni, si atteggia a negoziatore e appaltatore, spesso attraverso contiguità tutt’altro che trasparenti, in tal modo mantenendo un ruolo pervasivo di dominus, seppure all’interno di logiche partigiane. Nell’ambito delle istituzioni politico-amministrative – sia a livello regionale che a livello di governo nazionale – non mancano esponenti di questa impostazione.
I nodi irrisolti della Big Society
Cosa ancor più grave, i tifosi acritici della Big Society dimenticano di valutare, con la serietà e il realismo necessari, i numerosi nodi ancora irrisolti da quella prospettiva, specialmente in tema di responsabilità permanente delle istituzioni, di accesso universale ai diritti da parte dei cittadini, di strumenti per rendere effettivo l’empowerment delle organizzazioni civiche.
In particolare, la prima considerazione riguarda il ruolo dello Stato nel rafforzamento delle capacità dei cittadini di partecipare al governo delle politiche pubbliche. In realtà, se davvero lo Stato, come prevede lo stesso principio di sussidiarietà, volesse stimolare e supportare le organizzazioni civiche, colmare le loro debolezze strutturali, tecniche e finanziarie, aumentarne le capacità di incidere nella vita del paese nei diversi ambiti d’intervento, con un investimento territoriale capillare, l’impegno necessario, in termini culturali, amministrativi ed economici, non sarebbe certamente modesto. Insomma, “capacitare” i cittadini è una responsabilità delle istituzioni che ha i suoi costi e rappresenta una vera e propria politica pubblica.
Le risorse a disposizione della Big Society Bank in UK o della Fondazione per il Sud in Italia sono ben poca cosa rispetto agli obiettivi che bisognerebbe raggiungere.
In secondo luogo, dare spazio alla società civile, non può significare perdere di vista l’obiettivo di raggiungere e mantenere su tutto il territorio nazionale un alto livello qualitativo di risposte e un minimo di omogeneità territoriale che serve per far crescere il Paese e attutire le diseguaglianze tra regione e regione. Ora, è vero che oggi il tema dell’accesso, dell’universalità e della tutela eguale dei diritti sembra ormai quasi soltanto affare delle organizzazioni civiche. Ma è anche vero che le istituzioni pubbliche – anche per motivi di capacità e risorse disponibili effettive – non potrebbero esimersi da investimenti e interventi massivi in molteplici settori (istruzione, ricerca, infrastrutture, servizi sociali e sanitari, servizi di pubblica utilità, ecc.) con la duplice finalità di accompagnare le iniziative civiche e di consentire al Paese di muoversi tutto intero verso un obiettivo condiviso.