La corrente dottrinaria che ha ispirato la fondazione del Laboratorio per la sussidiarietà ha abbracciato il tema e la sfida dei beni comuni quando questa espressione non era ancora molto in voga. Già a partire dalla 1^ Convenzione nazionale della sussidiarietà , evocativamente dedicata a ” L’Italia dei beni comuni ” , i numi tutelari di Labsus, Gregorio Arena e Giuseppe Cotturri, hanno individuato un collegamento diretto tra sussidiarietà orizzontale e beni comuni. E si è rilanciato nel ForumPA del 28 con la proposta di un piano nazionale di manutenzione civica. Fino ad arrivare ai giorni nostri, con la proposta di Arena di porre mano a una teoria giuridica ed economia dei beni comuni lanciata a un convegno del Forum del Terzo Settore e con il convegno sulla sussidiarietà come modello per governare con la rete nell’ambito del ForumPA del 211, dove la sussidiarietà e i beni comuni hanno trovato un endorsement inatteso.
Beni comuni come metonimia della sussidiarietà orizzontale
L’obiettivo neppure troppo velato di Labsus e dei suoi studiosi è sempre stato quello di utilizzare il concetto di beni comuni come una metonimia della sussidiarietà orizzontale. In altri termini, questa scuola di pensiero si è da sempre adoperata affinché l’art. 118, ultimo comma, venisse interpretato come la pietra angolare di un modello di società e di economia in cui il cittadino attivo, il filantropo, l’imprenditore attivo, l’azienda attiva decidono di esercitare la libertà e assumere sulle proprie spalle la responsabilità di prendersi cura dei beni comuni, anziché limitarsi a richiederne il rispetto o a pretenderne il godimento o, molto peggio, contribuire al loro uso predatorio.
Per questa dottrina è come se il 118, ultimo comma, recitasse così: «I cittadini, singoli o associati, hanno la libertà e la responsabilità di prendersi cura dei beni comuni ». Non si arriva alla statuizione di un vero e proprio obbligo come nella costituzione polacca secondo cui « E’ dovere del cittadino polacco la fedeltà alla Repubblica Polacca e la cura del bene comune » (art. 82) oppure «Ciascuno è obbligato ad aver cura delle condizioni dell’ambiente ed è responsabile dei peggioramenti provocati » (art. 86). Si tratta bensìdi una libertà solidale e responsabile come Arena ha a più riprese sostenuto.
Ma da dove si parte per gettare le fondamenta di una rigorosa e solida teoria giuseconomica dei beni comuni? Senza dubbio il primo problema da affrontare è quello definitorio. Quali sono i beni comuni? Quanti sono i beni comuni? Sul punto, questa rivista ha già sviluppato un’ampia e approfondita riflessione ospitando i preziosissimi contributi di Carlo Donolo.
E anche i contributi di Arena e di chi scrive hanno contribuito a chiarire ciò che questo filone interpretativo intende ricomprendere all’interno dell’orizzonte dogmatico dei beni comuni. In più essi hanno provato ad abbozzare alcune linee di ragionamento per una ricostruzione giuridica del fenomeno, rispettivamente dal punto di vista teorico e applicativo. Per costruire un solido paradigma teorico poggiante sulle fondamenta dei beni comuni occorre, tuttavia, dotarsi di una nuova chiave di lettura del modello sociale ed economico oggi imperante e di infrastrutture giuridiche a supporto di questo diverso modello.
Dall’homo oeconomicus…
La chiave di lettura diversa può venire dalle più recenti evoluzioni nella teoria economica. Il paradigma economico tradizionale pone al centro della sua analisi l’homo oeconomicus. Chi è costui? Si tratta di un individuo le cui azioni sono guidate da un egoismo autointeressato. La saggezza convenzionale in campo economico ha costruito attorno a questo individuo un’arena per favorire l’incontro fra questi individui e il mercato. Questa infrastruttura popolata da individualisti egoisti rappresenta secondo la dottrina economica mainstream il miglior strumento per raggiungere il benessere sociale perché assicura che attraverso decisioni decentrate e scambi, preferibilmente poco o affatto regolati, basati esclusivamente sulla valutazione in merito alla convenienza individuale e alla massimizzazione del proprio interesse, si possa giungere a un’ottimale allocazione di costi e benefici nella società .
Eppure ci sono beni che il mercato cosìstrutturato difficilmente riesce ad assoggettare alle proprie leggi perché, per un verso, alcuni beni possono essere oggetto di un uso predatorio (rivalità ) e, per altro verso, esso non riesce a imporre un prezzo per il loro godimento per ragioni tecniche (non escludibilità in senso tecnico). I beni comuni, se osservati con le lenti dell’economista tradizionale, presentano questi due caratteri. Peraltro, ci possono essere beni comuni che sono tali per scelta normativa (non esclusione in senso normativo), cioè beni per i quali l’esclusione sarebbe anche possibile tecnicamente, ma si è scelto di sottoporli a un regime di proprietà comune perché, in virtù di qualche caratteristica speciale del bene, non è irrilevante per l’individuo il modo in cui essi sono gestiti.
Questa particolare rilevanza per la modalità di gestione di un bene comune potrebbe essere testimoniata dai cd. “valori di non uso”. Ci sono cioè beni la cui sopravvivenza o distruzione possono procurare, rispettivamente, un vantaggio o una perdita all’individuo anche se questi non ne farà mai uso. Si pensi al caso della perdita di utilità sociale che provoca il danneggiamento di un bene ambientale anche remoto rispetto alla generalità degli individui. La giurisprudenza americana ha riconosciuto il diritto dei percettori dei valori di non uso a ottenere un indennizzo per il danneggiamento di un bene di questo tipo. Il mercato non registra i valori di non uso dei beni comuni e quindi non è il modo giusto per organizzare l’uso di queste risorse. Indurrebbe a scelte influenzate da “privatismi” o “localismi”. Il modo in cui i diritti di proprietà sono assegnati e il modo in cui è gestita la risorsa diviene, dunque, l’aspetto più rilevante. La cooperazione fra gli individui facilitata dalla istituzione di un regime di proprietà comune delle risorse si rivela una soluzione organizzativa in grado di superare la tragedia dei beni comuni (Franzini, 211). Peraltro, la Ostrom ha dimostrato che uno dei fattori limitanti le potenzialità della cooperazione è il grado di disuguaglianza presente tra gli individui che dovrebbero cooperare. Minore disuguaglianza corrisponde a maggiore cooperazione.
…alla mulier activa
Ad ogni modo, una teoria economica dei beni comuni deve essere centrata su questa diversa figura di individuo. Un individuo affatto guidato dalla ricerca perpetua della massimizzazione dei propri interessi materiali e refrattario ad agire in solitudine. Nel corso del tempo per questo archetipo di individuo disposto a cooperare o “reciprocare” per la cura di beni comuni sono state coniate diverse etichette dalle diverse scienze sociali: cittadino attivo (Arena, 26), homo civicus (Cassano, 24), homo reciprocans (Bowles, 22). Si tratta di un modello di individuo che, pur non rinunciando al perseguimento delle proprie passioni e dei propri interessi, comprende che questa libertà individuale è nulla se non è associata a una responsabilità verso la comunità di cui è parte, se all’agire da solo non accompagna l’agire in comune (Tocqueville, 1835-184).
Potremmo etichettare questo paradigma come quello della “mulier activa” sia per obbedire alle raccomandazioni su un uso non sessista della lingua italiana, sia perché l’intuizione è fortemente tributaria della concezione arendtiana di individuo (Arendt, 1964). Una concezione che fra le tre attività che compongono la “vita activa” pone sul gradino più elevato quella degli individui che non rinunciano ad agire nello spazio pubblico e a porsi in relazione con gli altri per prendersi cura dell’interesse generale (i.e. l’agire politico).
Government vs. governance
In maniera speculare, i poteri pubblici nell’affrontare il tema della tutela dei beni comuni hanno da sempre adottato strategie di government, caratterizzate cioè dalla autoritatività , verticalità e autoreferenzialità dei meccanismi decisionali pubblici. Si tratta di schemi amministrativi basati su dinamiche di comando e controllo (Stewart, 23).
Invece, occorre elaborare una teoria generale degli strumenti di governance e, dunque, di strategie amministrative caratterizzate da paritarietà , orizzontalità e apertura verso la cooperazione con la comunità e la società civile (March-Olsen, 1989). Si tratta di una forma di azione amministrativa di nuova generazione (Barnes, 211), che abbandona gli schemi dell’amministrazione tradizionale, autarchica e gerarchica, per fare perno sulla collaborazione con i diversi attori (istituzionali o sociali) e portatori di interessi ai fini della realizzazione di scopi di interesse generale.
Anche la Cassazione, con una sentenza a Sezioni Unite, la n. 3811 del 211, suggerisce di muovere verso formule di tutela dei beni comuni ispirate alla governance. La Suprema Corte ha dapprima stabilito che dagli artt. 2, 9, 42 Cost. è possibile ricavare il principio della tutela della personalità umana, il cui corretto svolgimento avviene non solo nell’ambito dei beni demaniali o patrimoniali dello Stato. Poi, che tutti i beni, per loro intrinseca natura o finalizzazione, funzionali al perseguimento e al soddisfacimento degli interessi della collettività , pubblici o privati che siano, sono da considerarsi “beni comuni”. E, infine, che la titolarità dello Stato (da intendersi come Stato-collettività , vale a dire come ente espositivo degli interessi di tutti) non è fine a se stessa e non rileva solo sul piano proprietario ma comporta per lo stesso gli oneri di una governance che renda effettive le varie forme di godimento e di uso pubblico del bene.
In questa opera di infrastrutturazione giuridica della governance dei beni comuni un solido punto di riferimento è rappresentato dai risultati del lavoro di Elinor Ostrom. E in questa rivista si è già tentato di additare alcuni dispositivi decisionali e amministrativi per consentire alla mulier activa di prendersi cura dell’ambiente, delle città , dei servizi locali, dei beni comuni locali. Ma ci sono anche soluzioni più tradizionali come dimostra l’esistenza e la vitalità di spezzoni della società civile come il terzo settore, le imprese sociali, la filantropia istituzionale e individuale, le imprese socialmente responsabili, il mondo della cooperazione.
Governare i beni comuni con questa rete è la sfida che le amministrazioni di nuova generazione hanno davanti. Si tratta di reti complesse, ma l’alleanza può generare innovazione, efficienza, qualità mai registrate prima in campo amministrativo.