Nel libro “La città intraprendente” Grazia Brunetta e Stefano Moroni analizzano una forma di sussidiarietà che si sviluppa, in forma embrionale, all’interno di alcune forme organizzative a base territoriale (le “comunità contrattuali”) e che, secondo gli autori, potrebbe rappresentare (se adeguatamente sviluppata) un’importante via per raggiungere una più completa e attiva presenza dei cittadini all’interno della comunità . Per “comunità contrattuali” gli autori intendono “quelle forme organizzative a base territoriale (ossia legate ad una specifica porzione di territorio) a cui i membri aderiscono volontariamente alla luce di un contratto unanimamente accolto e in vista dei benefici che ciò garantisce loro”. Fanno parte di questa categoria, a sua volta parte della più ampia famiglia delle “formazioni sociali volontarie”, soprattutto diverse “forme di aggregazioni residenziali auto-organizzative che si sono rivelate in grado di realizzare e garantire servizi collettivi in maniera particolarmente efficiente e di riaccendere la responsabilità e la cura dei membri nei confronti del loro ambiente di vita”, quasi una medicina, secondo gli autori, contro un atteggiamento diffuso nel nostro paese, dove ciò che è di tutti finisce spesso per essere percepito come qualcosa che, viceversa, non è di nessuno (si veda in proposito l’editoriale in cui Christian Iaione individua come uno dei fattori della “crisi urbana” la “graduale disaffezione e disattenzione dei cittadini verso gli spazi pubblici urbani che sono percepiti come luoghi di nessuno (o al più dell’ente pubblico locale), anziché luoghi di tutti in quanto spazi comuni”).
Le comunità contrattuali
I modelli di comunità contrattuali sono, per gli autori, essenzialmente riconducibili a tre gruppi.
Nelle “comunità contrattuali di proprietari” un gruppo di cittadini possiedono singolarmente delle proprietà immobiliari e collettivamente delle aree comuni, che sono gestite da un corpo elettivo: questo modello interessa sia le “homeowners associations”, sia le esperienze di “cohousing”. Esempio di questo modello è la comunità residenziale di San Felice a Milano, un quartiere privato situato a est del capoluogo lombardo, “nato con l’idea di essere una comunità privata il più possibile indipendente dalle municipalità di riferimento, in grado di governarsi da sola e di fornirsi privatamente tutti i servizi di cui necessitava”, ma che è divenuta nel tempo, come sottolineano gli autori, “piuttosto un particolare tipo di supercondominio, diverso dalla struttura classica del condominio soprattutto per l’estensione territoriale e per la fornitura di un numero limitato (per quanto significativo) di servizi. La comunità di San Felice, che conta oggi circa 4.5 persone e che si estende su una superficie di 6. mq, si presenta come un quartiere funzionalmente integrato, con spazi commerciali ed integrativi (la cui fruizione è aperta agli esterni al quartiere), in cui vengono forniti privatamente servizi come attrezzature sportive, spazi aggregativi, biblioteca, asilo nido e chiesa; anche mansioni come la pulizia e l’illuminazione delle strade sono gestite privatamente. I servizi vengono gestiti spesso da associazioni volontarie di residenti (come nel caso della biblioteca e del cinema/teatro), mentre l’amministrazione della comunità prevede un amministratore centrale e un consiglio con funzioni consultive, eletti dall’assemblea plenaria dei condomini. Anche se gli autori affermano che “San Felice è ben lontano dall’immaginario delle gated communities alle quali potrebbe essere semplicisticamente associato”, in virtù di uno scarso controllo degli accessi e del fatto che gli esercizi commerciali sono fruibili anche dagli esterni, ciononostante non ci sembra azzardato asserire che la presenza di un muro, di un accesso sorvegliato e la fornitura privata di servizi normalmente erogati da enti pubblici facciano pensare a “delle piccole enclave all’interno delle città “, dunque le cosiddette “gated communities” o “città cancellate” (si veda questo editoriale di Christian Iaione).
Un altro modello di comunità contrattuale è definito dagli autori “comunità contrattuale di affittuari” e prevede un proprietario unico di una porzione di suolo che “dopo averlo adeguatamente infrastrutturato e organizzato, ne affitta parti a individui disposti a versare un canone, continuando ad occuparsi della gestione e valorizzazione unitaria del complesso”. Un esempio di tale modello è rappresentato dagli orti collettivi di via Chiodi, a Milano, dove 13 appezzamenti recintati di 75 mq ciascuno sono stati messi in affitto dalla famiglia Cristofani, proprietaria del lotto di terreno sul quale si trovano gli orti.
Il terzo modello è definito dagli autori “comunità contrattuale di comproprietari” e prevede che la proprietà sia posseduta collettivamente e che i membri abbiano obblighi e privilegi d’uso. Fanno parte di questa categoria sia cooperative residenziali (dove i singoli non possiedono beni immobili ma quote della cooperativa) e proprietà territoriali collettive, come nel caso delle “regole” di Cortina d’Ampezzo. Le regole, che interessano oltre il 6percento del suolo del comune di Cortina, sono “proprietà collettive chiuse che […] detengono una porzione di suolo in forma indivisa e la amministrano a beneficio di una comunità di famiglie..”. Esse definiscono , tramite organi decisionali rimasti uguali nei secoli, le modalità di sfruttamento del suolo (periodi e luoghi per il pascolo, quantità di bestiame, etc.).
Una forma radicale di sussidiarietà orizzontale
Le comunità contrattuali delineate dagli autori “non sono solo create, ma anche ordinate dai membri. In altri termini le comunità contrattuali generano il proprio diritto”: un “diritto dei privati”, che si distingue dal diritto privato e “che emerge liberamente da accordi e patti effettivi tra i privati”. Secondo gli autori, dunque, le comunità contrattuali in questione invitano a “ripensare profondamente il ruolo del soggetto pubblico e a immaginare una nuova suddivisione dei compiti tra quest’ultimo e i soggetti privati. Le comunità contrattuali potrebbero in particolare essere un elemento fondamentale di un modello improntato ad una forma radicale di sussidiarietà (orizzontale)”.
Si potrebbe tuttavia imputare a tale tesi di arrivare ad una soluzione alquanto parziale del problema dello sviluppo della cittadinanza attiva, in quanto tale approccio sembrerebbe favorire il formarsi di “oasi” di sussidiarietà , senza trattare la problematica da un punto di vista più generale. Non solo.
Il tipo di sussidiarietà che gli autori prendono in esame è ben lontano dall’ “optimum sussidiario”, che si ottiene “laddove il mix tra il favoriscono e l’autonoma iniziativa dei cittadini è perfettamente bilanciato”, ossia laddove vi è un dialogo e un impegno da parte sia dei dei cittadini, sia delle istituzioni competenti. In un editoriale, Christian Iaione propone una scala della sussidiarietà utile ad individuare i vari livelli di “purezza” delle esperienze via via analizzate: l’approccio teorico del libro in questione può essere ricondotto al “grado zero” della sussidiarietà , perché prende in esame delle forme di “privatismo sussidiario”, che rischiano di creare delle piccole enclave. L’equilibrio tra il favoriscono e l’autonoma iniziativa dei cittadini viene meno, perché non vi è l’interlocuzione con le istituzioni pubbliche ma solo l’iniziativa dei cittadini e non si può dunque parlare di sussidiarietà .
Tuttavia, tali “forme di governo locale che nascono dai desideri dei membri della comunità ” possono costituire, in una certa misura, delle “palestre” per la diffusione di una cittadinanza maggiormente attiva, dunque “una risorsa per l’innesco di processi di apprendimento, in quanto veicolo di cambiamento istituzionale e (anche) di riqualificazione territoriale.”
BRUNETTA G., MORONI S., La città intraprendente, Carocci Editore, Roma, 211