A partire dagli anni Ottanta cominciano a manifestarsi nuove forme di mobilità e nuovi migranti (come i profughi ambientali) provenienti da zone geografiche fino a quel momento poco interessate dai flussi migratori (Asia centrale ed orientale, Europa dell’Est e Africa centrale) con la conseguente trasformazione delle aree urbane. I flussi migratori infatti ridisegnano i contorni socio-culturali delle nostre città sempre più globali e pongono le basi per la ridefinizione del concetto di cittadinanza. Attraverso l’estensione dello Jus soli in molti paesi di accoglienza il “vivere insieme” viene rivisto “per dare risposta alla domanda di numerosi migranti e di immigrati di seconda generazione di conservare le proprie usanze pur diventando cittadini del paese di accoglienza”.
Multiculturalismo e integrazione sono i caratteri della città globale che diventa crocevia di flussi economici e culturali, polo di sviluppo e punto di partenza per altre destinazioni, affermandosi come centro di decisione strategico, al di là dei governi e degli Stati nazionali. “Delle 25 megalopoli del mondo la cui area urbana supera i 10milioni di abitanti – scrive Withol De Wenden – 13 sono in Asia, 4 in America Latina, 2 in America del Nord, 2 in Africa, 4 in Europa” sempre più mete di migrazioni regionali e internazionali.
Tra i principali fattori dell’urbanizzazione vi è l’esodo rurale provocato dalla povertà e dalla desertificazione di determinate aree per via degli effetti del riscaldamento climatico: il 17 per cento della popolazione mondiale è priva di acqua potabile, un miliardo di persone vive nelle bidonville e su 845 milioni di affamati al mondo 83 milioni sono contadini. Entro il 2030 le città conteranno quasi cinque miliardi di abitanti, un aumento che avverrà per il 93 per cento nei sud del mondo, in Asia e in Africa, mentre entro il 2050 la popolazione aumenterà del 4 per cento e raddoppierà nel continente africano.
Migrazioni non solo economiche ma anche ambientali. Il clima infatti potrebbe far raddoppiare il numero di migranti tanto che nel testo si parla di profughi ambientali come i migranti del domani. Intorno al 2050 le migrazioni dovute a cause ambientali riguarderanno da 15 milioni a un miliardo di persone. Il riscaldamento climatico, la desertificazione, le inondazioni hanno posto in evidenza la necessità di accogliere milioni di persone di cui la protezione internazionale dell’asilo e la protezione sociale nazionale si sono occupate ancora troppo poco. Due sono gli esempi emblematici di migrazione ambientale: il caso dell’uragano Katrina che ha colpito nel 2006 New Orleans e che ha prodotto una migrazione forzata di circa metà della popolazione. La sola città di Houston ha accolto infatti tra le 2 e le 3mila persone mentre oltre 5mila sono i sans-papiers arrivati poi dall’America Centrale per la ricostruzione. E il caso dell’isola di Tuvalu dove la minaccia dell’innalzamento del livello dell’acqua ha comportato lo spostamento di 3mila abitanti in Nuova Zelanda.
Negli ultimi cinquant’anni il numero di persone che ha lasciato il proprio paese è raddoppiato, considerato che “se tutti i migranti vivessero nello stesso posto, costituirebbero il quinto paese del mondo in termini di popolazione”. La popolazione urbana (che è di 3,3 miliardi di persone quattro volte maggiore rispetto a quella del 1950) rappresenta oggi ben il 53 per cento della popolazione mondiale: un dato che conferma una volta di più quanto il fenomeno migratorio abbia dirette conseguenze sul governo dei livelli urbani, da accompagnare con un governo adeguato delle migrazioni su scala sovranazionale.