Andrea Mochi Sismondi racconta nel suo libro “Confini diamanti – Viaggio ai margini d’Europa, ospiti dei rom” edito da Ombre corte, il viaggio di una coppia di giovani attori italiani che finiscono per stabilirsi a Sutka. I viaggiatori-narratori si ritrovano catapultati in una realtà in cui il termine manusikané contraddistingue la cultura rom. I personaggi che incontrano, a partire dal sindaco Asim Trokesa, raccontano la storia del quartiere fatto di libertà e paura.
La storia vuole che nella cittadina in cui la maggioranza della popolazione è rom,”al tempo di Tito”, esistevano due consigli composti da uomini autorevoli chiamati Kmeti. A loro ci si rivolgeva per risolvere i conflitti interni alla comunità : arrivavano infatti sul luogo dove il conflitto era scoppiato ed ascoltavano i fatti riportati dalle parti in causa. I componenti del consiglio erano volontari, operando quindi senza percepire alcuno stipendio. Gli abitanti di Sutka raccontano alla coppia di attori che l’usanza è poi venuta meno nel corso del tempo con l’istituzione della Municipalità . L’usanza stava ad indicare il modo in cui la popolazione intendeva il concetto di Stato: organizzarsi per arrivare ad una soluzione comunitaria del conflitto. E’ sopravissuto solo un aspetto di quell’usanza: in caso di conflitti fra nuclei familiari i più anziani di una famiglia vanno per primi a parlare con i più anziani dell’altra. Sostanzialmente – spiega un abitante – si possono verificare diversi casi di scontro tra famiglie: tra chi pensa manusikané (umanamente) e chi naj manusa (non uomo) che prediligono lo scontro e non la risoluzione pacifica del conflitto. La cultura rom non predilige la vittoria e lo scontro, come emerge dai racconti dei protagonisti. “Chi è umano tenta solo di vivere bene, rifiutando di agganciare il proprio orgoglio ad una determinata vittoria”.
Sutka è una municipalità libera, raccontano ancora i protagonisti, “la prima libertà è quella di parlare la nostra lingua, poi c’è quella che ci dà il bazar”. Prima della nascita del Bazar Europa a Sutka, avvenuta nel 2, i rom erano costretti a spostarsi fuori dalla propria comunità vendendo su cartoni di ogni tipo i loro prodotti. Scontri con la polizia erano all’ordine del giorno e spesso la merce veniva buttata via dalle autorità . Uno stato di paura e terrore accompagnava l’attività dei rom. Fino a quando i commercianti locali non hanno convinto il governo che il modo migliore per evitare la concorrenza tra loro era quello di tenere i rom dentro Sutka. “Nel 2 abbiamo conquistato la libertà di vendere senza paura dalle aggressioni da parte della polizia”, rivela un abitante del posto ai due giovani italiani. Il bazar nel corso del tempo si trasforma però da luogo di aggregazione spontanea in proprietà privata quando la municipalità decide che i venditori locali avrebbero dovuto spostarsi dalla piazza principale. Viene dato cosìin appalto ad un privato la gestione della struttura. “Ora per vendere all’interno del bazar si paga l’affitto. Il problema – ricorda un intervistato – è che noi rom siamo attaccati in qualunque paese viviamo (…) il problema sostanziale è che non ci organizziamo”.
Dal viaggio emerge una realtà contraddittoria in cui i rom possono sìeleggere un proprio sindaco, parlare la propria lingua e mettere in pratica le proprie usanze ma dall’altro rimane la difficoltà di appartenere ad una comunità che subisce ancora forti discriminazioni ostaggio di preconcetti mai superati. “Non avere un proprio paese – confessa un abitante ai due italiani – è un dolore che non si può spiegare. Se qualcuno ti chiedesse di dimenticare la tua lingua, le tue tradizioni e la tua cultura, cosa resterebbe di te?”.