Lasciamo ad altri momenti la riflessione sul privato, soffermandoci invece qui a riflettere sulla comparsa di “nuovi spazi pubblici” che nel momento in cui superano l’equazione pubblico=Stato ridefiniscono nel complesso la relazione pubblico/privato.
Sulle pagine di questa rivista abbiamo spesso dato conto di tale tendenza, ma i tempi sembrano maturi per fare il punto sulla situazione e vedere se si possa parlare di un cambiamento culturale di medio termine.
I nuovi spazi pubblici
Dal diritto all’economia, dalla politica alla comunicazione assistiamo ad una ridefinizione delle tradizionali categorie dell’agire collettivo, fondate sulla contrapposizione pubblico/privato che ha contraddistinto la modernità .
Per pubblico possiamo intendere ciò che è aperto a tutti (un luogo pubblico), ciò che attiene alla sfera dello Stato (un dipendente pubblico), ciò che è visibile (di pubblico dominio), ciò che è comune (beni comuni), ma già su quest’ultimo punto è possibile sollevare delle questioni inerenti il tipo di “pubblicità ” relativa a tutto ciò che, di materiale e immateriale, consideriamo comune (in senso stretto: né pubblico, né privato).
Non sono mancati in passato esperimenti volti a ricercare una “terza via”, di volta in volta individuata nella società civile o nel terzo settore, quali possibili attori alternativi rispetto a quelli provenienti dal mercato o dallo Stato. Non sono nemmeno mancati gli stimoli provenienti dall’esterno, basti pensare al ruolo dell’Unione europea e al suo tentativo di legittimare soggetti “altri” rispetto ai tradizionali attori istituzionali.
Rispetto a questi esempi o ad integrazione di essi, ciò a cui assistiamo oggi è la nascita di “nuovi spazi pubblici” che esulano dalla dimensione della statualità , ma che sono pur sempre pubblici in virtù del loro richiamo alla nozione di beni comuni e ad un modo nuovo di intendere la cittadinanza. Questa nuova idea di “pubblicità ” coniuga al suo interno il senso di comunità e l’interesse generale, presentando se stessa come un nuovo laboratorio di creatività sociale.
Quella che si annuncia come una rivoluzione culturale affonda le sue radici in un mutamento di lungo periodo le cui tracce è possibile rinvenire in espressioni delle società contemporanee apparentemente distanti tra loro. Si passa dalle potenzialità partecipative del web 2. agli orti di comunità ; dalla weconomy alle smart cities, esperienze diverse, ma pur sempre riconducibili ad un minimo comun denominatore: l’accento posto sul “Noi”.
Le origini di una rivoluzione culturale
Ad una prima analisi si potrebbe cedere alla tentazione di ricondurre tali cambiamenti all’attuale crisi economica: le ristrettezze e le difficoltà che questa impone indurrebbero ad un recupero dei valori comunitari e solidaristici.
Un’analisi più approfondita, che tenga conto anche di altre variabili, permette di recuperare espressioni di un cambiamento culturale latente, ma continuo, che poco o niente hanno a che vedere con la crisi.
Un ruolo determinante è stato svolto dal web e dalla cultura che è alla base delle nuove tecnologie. Espressioni quali sharing, peering, connecting, open source sono entrate nel linguaggio comune. Queste denotano, a partire dal linguaggio, apertura e condivisione e l’idea di un’intelligenza collettiva che produce a sua volta una conoscenza cumulativa, che si accresce grazie al contributo di ognuno.
Quella che Jenkins ha definito una “cultura partecipativa” favorita dalle nuove tecnologie, lascia gli spazi virtuali del web per dare forma ad un modo nuovo di concepire il vivere associato e la partecipazione.
Già Jeremy Rifkin, nel suo libro L’era dell’accesso (2) aveva segnalato la fine di un’era fondata sulla proprietà a cui ne seguiva una fondata sull’accesso: “una nuova era fondata sulla fiducia tra estranei, sull’accesso invece del possesso”.
Ecco dunque che espressioni quali co-working, co-housing o le diverse applicazioni della mobilità sostenibile (car sharing, bike-sharing) entrano nel linguaggio quotidiano e individuano altrettante esperienze di condivisione – di un bene, un’idea, un insieme di relazioni – che non sono più private, ma nemmeno pubbliche in un’accezione tradizionale.
La stessa economia non rimane estranea a questa tendenza generale. Dominio incontrastato dell’individualismo moderno, l’economia si apre al Noi nelle molteplici esperienze dell’economia sociale e nella diffusione di pratiche quotidiane di consumo collaborativo, spesso favorite dalla rete.
La riscoperta del Noi: verso un nuovo comunitarismo
Tali manifestazioni si fondono con le critiche all’utilitarismo di matrice economicistica, accentuate dalla crisi economica, tendenti al superamento dell’individualismo solipsistico, con una forte componente narcisistica, che affonda le sue radici nel pensiero moderno. L’Io moderno lascia il posto ad un Noi comunitario che abbandona le chiusure e i settarismi degli ultimi decenni per aprirsi alla condivisione e alla cooperazione.
Su questi temi non sono mancati negli ultimi anni alcuni importanti contributi. Come recitano Antonio Negri e Michael Hardt, in Comune (21) per comune “intendiamo, in primo luogo, la ricchezza comune del mondo materiale – l’aria, l’acqua, i frutti della terra e tutti i doni della natura […] Per comune si deve anche intendere, con maggior precisione, tutto ciò che si ricava dalla produzione sociale, che è necessario per l’interazione sociale e per la prosecuzione della produzione, come le conoscenze, i linguaggi, i codici, l’informazione, gli affetti e cosìvia” (pp. 7-8). La nozione di “comune” chiama in causa la relazione con gli altri e la responsabilità reciproca: “la cognizione del comune non presuppone la separazione dell’umanità dalla natura, come se l’umanità fosse il suo sfruttatore o il suo custode, bensìessa mette in evidenza le pratiche dell’interazione, della cura e della coabitazione in un mondo che è oltremodo comune” (p.8). E’ a partire da questa prospettiva che la nozione di comune si colloca al di là di una contrapposizione ideologica pubblico/privato che ha accomunato, seppure da posizioni diverse, capitalismo e socialismo.
Non diversamente Richard Sennett in Insieme (212) è alla ricerca dei germi di un cambiamento rispetto al tribalismo settario ed esclusivista che ha dominato negli ultimi decenni. A questo proposito egli parla della diffusione di una “mentalità collaborativa”, capace di contrastare la collaborazione distruttiva del tipo “noi contro voi” propria del tribalismo (p. 16). A partire da ciò afferma che “la collaborazione può essere definita, grossolanamente, come uno scambio in cui i partecipanti traggono vantaggio dall’essere insieme” (p. 15), definizione che richiama finanche nella terminologia alcuni aspetti della nozione di beni comuni.
Nuovi spazi pubblici e cura dei beni comuni
La semantica dei beni comuni sembra pertanto collocarsi proprio all’interno della riscoperta del Noi. Come afferma Carlo Donolo nel primo dei suoi editoriali dedicati a questo tema “i beni comuni sono un insieme di beni necessariamente condivisi. Sono beni in quanto permettono il dispiegarsi della vita sociale, la soluzione di problemi collettivi, la sussistenza dell’uomo nel suo rapporto con gli ecosistemi di cui è parte. Sono condivisi in quanto, sebbene l’esclusione di qualcuno o di qualche gruppo dalla loro agibilità sia spesso possibile ed anche una realtà fin troppo frequente, essi stanno meglio e forniscono le loro migliori qualità quando siano trattati e quindi anche governati e regolati come beni ‘in comune’, a tutti accessibili almeno in via di principio”. In maniera simile, Gregorio Arena definisce i “beni comuni” come “quei beni che se arricchiti, arricchiscono tutti e se impoveriti impoveriscono tutti”.
Torna l’idea del Noi come spazio condiviso, che si concretizza in beni comuni di cui prendersi cura insieme, con la maestria propria dell’artigiano. Come afferma Sennett, l’artigiano è “la figura rappresentativa di una specifica condizione umana: quella del mettere un impegno personale nelle cose che si fanno” (p. 28). Il termine maestria rende bene questa attitudine: “la maestria designa un impulso umano fondamentale sempre vivo, il desiderio di svolgere bene un lavoro per se stesso. E copre una fascia ben più ampia di quella del lavoro manuale specializzato; giova al programmatore informatico, al medico e all’artista; anche la nostra attività di genitori migliora, se è praticata come un ‘mestiere’ specializzato, e cosìpure la nostra partecipazione di cittadini” (p. 18). Dedizione e maestria hanno a che fare con il “prendersi cura” delle cose, delle persone e dei beni comuni.
Ecco dunque che i soggetti di quella che sulle pagine di questa rivista è stata definita una “rivoluzione collaborativa” sono i cittadini, spesso più avanti delle istituzioni nel trovare risposte ai mutamenti a partire dalle pratiche di vita quotidiana. Speriamo solo che la creatività sociale di cui sono portavoce, non resti esclusa dai grandi programmi politici, ma soprattutto non sia disattesa nelle prassi quotidiane delle istituzioni.
Bibliografia di riferimento
Arena G., Iaione C. (a cura di), L’Italia dei beni comuni, Roma, Carocci, 212; Bellanca N., L’economia del noi. Dall’azione collettiva alla partecipazione politica, Milano, Egea, 21; Carlini R., L’economia del noi. L’Italia che condivide, Bari, Laterza, 211; Innerarity D., Il nuovo spazio pubblico, Roma, Meltemi, 28; Mattei U., Beni comuni. Un manifesto, Bari, Laterza, 211; Negri A., Hardt M., Comune. Oltre il privato e il pubblico, Milano, Rizzoli, 21; Ostrom E., Governare i beni collettivi, Marsilio, Venezia, 26; Pennacchi L., Filosofia dei beni comuni. Crisi e primato della sfera pubblica, Roma, Donzelli, 212; Sennett R., L’uomo artigiano, Milano, Feltrinelli, 29; Sennett R., Insieme. Rituali, piaceri, politiche della collaborazione, Milano, Feltrinelli, 212.