L’economia oggi: uno sviluppo che stenta
Se c’è una frase che può riassumere meglio di qualsiasi altra l’economia di oggi, al di là delle convinzioni, è che bisogna dovere credere nel progresso, sempre, ma non si può più credere in questo sviluppo. Diventano allora due le domande a cui rispondere: cosa intendiamo per sviluppo, e perché non si può più credere nel tipo di sviluppo vissuto fino ad oggi. Per la prima non cerchiamo definizioni di accademia, restiamo sul semplice: lo sviluppo è il modo con cui una società , un Paese, uno Stato possono migliorare il loro benessere, conoscere di più, e avere anzi strumenti per scoprire di più, vivere meglio la loro vita. Il nodo cruciale allora, tutto culturale, ideologico e politico, sta nel come ognuno di noi e tutti insieme concepiamo lo sviluppo, e dunque quali sono i metodi e gli strumenti (anche di scelta e di decisione) con cui selezioniamo la strada che dovrebbe portare al progresso. Quindi anche gli indicatori a partire dai quali lo misuriamo, questo sviluppo, quali numeri sono davvero importanti, da tenere d’occhio, per capire se la rotta è la migliore tra quelle possibili.
Capitalismo e PIL: parole vecchie o rinnovabili?
Fino ad oggi, e in un numero di economie sempre più diffuso, abbiamo sempre parlato di economia di mercato / capitalistica e di PIL, che sta per Prodotto Interno Lordo. Nel primo caso parliamo di un sistema dove vengono prodotte merci, con l’obiettivo di venderle più che di consumarle in proprio, per sopravvivenza, e il tutto all’interno di imprese organizzate in settori e reparti (non semplici laboratori artigiani), nate sulla base dell’investimento di un individuo o un soggetto che ha capitali da spendere e investire per trarne un guadagno, mettendo però a disposizione soldi e strumenti necessari alla stessa produzione. Un bel meccanismo, e che da 5 anni a questa parte, per indicarne l’efficienza in termini di ricchezza, viene misurato dal PIL.
Una sigla, questa, che comprende elementi già presi in considerazione da molto tempo, almeno due secoli, e che semplicemente sottrae al fatturato e le vendite di prodotti all’interno di un’economia il costo necessario per produrre ciò che viene venduto, fatturato, e genera profitto. Ovviamente, per non inerpicarci in analisi complesse, continuiamo con la nostra banalizzazione, ma ecco che arriviamo ad un punto in cui i risultati dati questa sigletta valgono più di mille analisi. Perché secondo le stime dell’OCSE, dalla prima rivoluzione industriale inglese (182) ad oggi, la ricchezza mondiale è aumentata di circa 12 volte, anche se con proporzioni diverse a seconda delle regioni del mondo (in Africa per esempio soltanto di quattro); l’aspettativa media di vita dai 3 anni è salita a 7 anni, mentre agli inizi del Settecento gli adulti che non sapevano né leggere né scrivere erano il 65%, nell’Europa cattolica l’8%, mentre nei primi decenni dell’Ottocento è il 5% in Europa, mentre oggi è residuale. Infine l’indice di sviluppo umano, che comprende il PIL combinando il reddito pro-capite con speranza di vita e alfabetismo (reddito, scolarità , salute), oscillando tra ed 1, passa dal ,18 medio del 1861 al ,86; il valore minimo spetta al Ruanda con ,45.
Il PIL: misura tutta la ricchezza. O quasi…
Eppure, riprendendo la scia di qualcosa già detto un mese fa, mai come oggi questo modello, da tutti considerato impeccabile, al punto da ritenerlo intoccabile, senza nessun intervento dello Stato, pare decisamente in affanno. Tra le sue conseguenze, frutto anche dell’aumento dell’inflazione e della pressione fiscale, pesa e tanto la restrizione del credito, quindi della disponibilità del sistema bancario e finanziario verso famiglie e imprese. Diventa sempre più difficile poter onorare impegni come l’acquisto di una casa via mutuo, oppure investire per innovare, dare lavoro e aumentare i consumi.Così, in un momento in cui il cosiddetto “credit crunch” colpisce anche le persone meritevoli, servirebbe una svolta. Anche nel modo stesso di intendere certe realtà del sistema economico. A partire dal concetto di ricchezza e dello stesso PIL.
Perché fino ad ora abbiamo parlato di prodotti, prezzi, redditi, dividendi e salari. Ma c’è altro che può essere inserito in questo paniere? Due le proposte più interessanti nel panorama mondiale. A cominciare da quella dell’economista francese Serge Latouche, esperto di studi sull’economia dell’ambiente, secondo cui la crescita nel senso tradizionale del termine presenta due difetti: non ha un senso sostanziale (in realtà si cresce soltanto nel momento in cui più persone vengono soddisfatte nei loro bisogni), e non comprende l’inquinamento, i rifiuti, la disponibilità delle risorse energetiche, che in assoluto riducono il valore di quanto è stato realizzato, visto che l’ambiente stesso, in realtà danneggiato, è composto anche da elementi utilizzabili nella produzione, ma che cosìsi riducono. Ecco quindi l’idea de “La sfida della decrescita”, o della “decrescita serena”: un progetto che mette le prime radici con la riflessione di pensatori del calibro di Thoureau, poi nel novecento di Ruskin e Andrè Gorz, oppure uno statista dal pensiero rivoluzionario come Gandhi. Un progetto che trova la sua sostanza in “buone pratiche”: dai Distretti di Economia Solidale all’agricoltura biologica e alla permacultura, dai Gruppi di Acquisto Solidale alla difesa dei territori come beni comuni, dal risparmio energetico al consumo critico, dal cohousing al car pooling. Tutte realtà che trovano in Italia un ancoraggio in soggetti quali l’Associazione per la Decrescita, il Movimento per la Decrescita Felice, o il Movimento Zero. Soggetti che soprattutto rivedono il concetto di ricchezza come qualità del mondo, non come quantità che resta lì, sul piatto di una bilancia che è proprio il PIL. Una bilancia oggi starata perché viziata alla base. Qui però non si tratta di scrivere condanne: il PIL, detto in maniera quasi paterna, non ha colpe rispetto a questo tipo di analisi, che è essenzialmente quantitativa, e informa soltanto su ciò che un sistema economico produce, non su come questa produzione sia avvenuta e quali sono le sue conseguenze.
PIL: quali alternative?
E’ la domanda chiave per passare dalla risposta alla proposta. Soprattutto se, pur cambiando lo spirito del capitalismo (in prestito da Weber), i suoi istituti devono essere conservati, come la moneta, i mercati, le banche, le tasse, la spesa pubblica.
Ecco allora che all’ottavo Festival delle Scienze di metà gennaio, presso l’Auditorium Parco della Musica di Roma, dal Buthan parte il messaggio della felicità e del suo raggiungimento individuale e collettivo. Il piccolo paese asiatico ha infatti introdotto il concetto di “FIL – Felicità Interna Lorda” , che oggi affianca il PIL ma individua il benessere sociale della popolazione. A sostenerlo Sonam Phuntsho Rapten, direttore media e comunicazione del Bhutan Studies Centre , che ha presentato i dati del suo paese durante l’incontro di inaugurazione, in uno con Mark Williamson, direttore del movimento Action for happiness: nato nel 211 a Londra con l’iniziativa Free Hugs che regalava abbracci alla gente in giro per la strada, ora il movimento vanta una community di 7mila persone in cento Paesi diversi. Andiamo però con ordine: il concetto di felicità interna lorda sale alla cronaca europea con la decisione del presidente francese Nicolas Sarkozy di nominare una commissione di economisti presieduta dal premio Nobel Joseph Stiglitz per procedere alla riforma del PIL: tra i suoi membri Amartya Sen e Jean Paul Fitoussi. Ma la storia nasce in questo paese himalyano dal 28 come indicatore per calcolare il benessere della popolazione. La svolta decisa dal trentaduenne monarca Jigme Khesar Namgyel, fu in realtà teorizzata negli anni sessanta del secolo scorso dal nonno, accogliendo l’intuizione del premio Nobel Simon Kuznets, datata 1934, all’indomani della Grande Depressione.
Ma per sgomberare ogni equivoco, è sempre stato chiarito che il FIL non sostituisce il PIL, ma lo completa con una percezione nuova, attraverso 33 indicatori e 124 variabili: tra queste spiccano con forza la qualità dell’aria, la salute dei cittadini, l’istruzione, la ricchezza dei rapporti sociali, quattro principi che sintetizzano al meglio le dieci regole dell'”Happiness Great Dream”. In pratica, lo sviluppo moderno deve promuovere la felicità collettiva, non semplicemente incrementare il volume di un prodotto che può essere in eccesso o in difetto, ma anche dannoso per i cittadini. La felicità quindi è pluridimensionale, ed e basata sul principio di interdipendenza, cioè con il giusto equilibrio tra quelle esigenze culturali, spirituali ed economiche che il mercato deve saper soddisfare.
Una svolta importante nell’aprile dello scorso anno, quando questo modello fu fatto proprio dall’ Assemblea Generale dell’ Onu con una risoluzione che riconosceva non solo l’importanza di un rapporto steso su mandato di una Commissione presso l’Assemblea Generale (agosto 211), ma soprattutto il raggiungimento della felicità come un traguardo fondamentale dell’uomo ed esortava gli Stati membri a sviluppare metodi più efficaci del Pil per misurare il benessere dei propri cittadini.
Il successo della FIL : un’agenda per la felicità
E in effetti questa decisione ha prodotto in breve tempo diversi sbocchi positivi: ad aprile dello scorso anno si è tenuta una prima conferenza ufficiale al Palazzo di Vetro, mentre un mese e mezzo fa a Thimphu (capitale del Bhutan), dal 28 gennaio al 2 febbraio, 2 esperti si sono riuniti in un Comitato Internazionale presso la sede centrale di Bhutan Studies, con l’impegno a stendere entro l’aprile del 214 un secondo Report sulla Felicità . L’obiettivo è studiare e verificare con più precisione il legame tra il FIL e la sensibilità di un Paese nel raggiungere obiettivi quali un’istruzione migliore, la protezione dell’ecosistema e a permettere lo sviluppo delle comunità locali.
Traguardi che in parte corrispondono agli Obiettivi del Millennio da raggiungere entro il 215 stabiliti dall’Onu dodici anni fa, di qui l’interesse delle istituzioni di New York. Ma quel che è certo è che un percorso, con tutti i rischi e i pregiudizi del caso, è iniziato.