Sono di tutti e quindi tutti possono goderne. Godendone, però, si consumano, si logorano. Affinché sia noi sia le generazioni future possiamo continuare a goderne è dunque necessario che qualcuno ne faccia continuamente la “manutenzione”, se ne prenda cura.
Un altro modo di guardare all’Italia
Proprio perché i beni comuni interessano e servono a tutti, noi pensiamo che si debba affidarne la “manutenzione” ai cittadini. D’altro canto, se non ci prendiamo cura noi del nostro Paese, chi altri dovrebbe farlo?
Non è affatto utopia pensare che gli italiani siano disposti a curare i beni comuni con la stessa attenzione con cui curano i propri beni privati, a cominciare dalla casa. Le centinaia di casi che abbiamo raccolto dal 2006 ad oggi dimostrano infatti che, in maniera del tutto autonoma e scoordinata, i cittadini già lo stanno facendo.
Il problema è un altro, cioè appunto quello di coordinare queste migliaia di micro esperienze locali, creando canali di comunicazione fra di loro per moltiplicare l’effetto energizzante della cittadinanza attiva sull’intera società . Si tratta di mettere “a sistema” ciò che oggi è un (meraviglioso) arcipelago di singole esperienze di cura civica dei beni comuni. E’ impegnativo, faticoso, ma non impossibile. Semplicemente, è un altro modo di guardare all’Italia.
I beni comuni non hanno colore
Per quanto riguarda la cura dei beni comuni non è vero (ammesso che lo sia mai…) che il fine giustifica il mezzo, anzi in questo caso il mezzo è già il fine. Perché è vero che i beni comuni in sé non hanno colore politico, non sono né di destra né di sinistra. Ma può avere valenza politica (in senso lato) il modo in cui ci si prende cura di essi. Lo si può infatti fare in modo conservatore oppure in modo innovativo, partecipato, democratico.
Il modo conservatore consiste nell’affidarne la cura ai poteri pubblici centrali e locali, utilizzando risorse tratte dalla fiscalità generale, applicando le regole del Diritto amministrativo e usando il potere pubblico per autorizzare, ordinare, proibire, punire.
Il limite di questa modalità sta nel fatto che se i poteri pubblici non hanno risorse per la loro “manutenzione” ed il loro sviluppo essi rimangono alla mercé di chi li usa, con il risultato di logorarli e spesso addirittura di distruggerli.
Un altro modo di guardare le persone
Ma questo esito non è scontato, perché le risorse per curare e sviluppare i beni comuni ci sono, anche se continuano ad essere ignorate. Per farle emergere è però necessario considerare le persone come portatrici non soltanto di bisogni, ma anche di capacità .
In sostanza, per affrontare la crisi economica e sociale che l’Italia sta attraversando è indispensabile prendersi cura dei beni comuni in modo diverso da come si è fatto finora, in modo partecipato e innovativo, valorizzando nell’interesse generale le competenze e le infinite risorse di intelligenza, creatività e capacità di lavoro di cui siamo dotati noi italiani.
Ma non soltanto le nostre. Per la cura dei beni comuni vanno infatti messe in campo anche le risorse di coloro che formalmente non sono cittadini, come gli stranieri che vivono e lavorano nel nostro Paese. E ancor di più quelle del milione di ragazzi e ragazze nati qui da genitori stranieri o arrivati qui da piccoli, che dovremmo far di tutto per integrare nella nostra società .
Difendere la democrazia e il benessere
Prendersi cura dei beni comuni presenti sul territorio della propria comunità è infatti il miglior modo per essere cittadini, nei fatti e non soltanto nei documenti. Ed è anche indispensabile sia per difendere la democrazia, sia il nostro benessere materiale.
La crisi infatti, impoverendo vaste aree della popolazione e creando incertezza per il futuro, alimenta il disprezzo per le istituzioni e le regole della democrazia rappresentativa, considerata non in grado di dare risposte ai bisogni ed alle paure dell’opinione pubblica. Per contrastare questo distacco è dunque cruciale rivitalizzare il senso di appartenenza alla comunità attraverso la cura condivisa dei beni della comunità ed esperienze concrete di partecipazione alla vita pubblica.
Al tempo stesso la valorizzazione delle esperienze di cura civica dei beni comuni consente di contrastare l’impoverimento dovuto alla diminuzione della disponibilità di beni privati, mantenendo una buona qualità della vita e garantendo il rispetto dei diritti di cittadinanza, soprattutto dei nostri concittadini in peggiori condizioni sociali ed economiche.
Se diminuisce la ricchezza privata bisogna infatti investire sulla produzione, cura e sviluppo dei beni comuni, anche per produrre quel capitale sociale che costituisce uno dei primi fattori di sviluppo.
Un ricostituente per l’Italia
In Italia ci sono già migliaia di cittadini attivi che si prendono quotidianamente cura dei beni della comunità in cui vivono. Lo fanno innanzitutto, giustamente, per migliorare la qualità della propria vita. Ma cosìfacendo dimostrano di aver capito che i beni comuni di cui una determinata comunità ha il godimento (un centro storico, per esempio, o un territorio particolarmente bello), sono in un certo senso dati “in custodia” dall’umanità a quella comunità . Questa ultima ha certamente il diritto di goderne, ma anche la responsabilità di mantenerli in condizioni tali da consentirne l’uso a tutti gli altri.
La cura civica dei beni di comunità nel nostro Paese è dunque già realtà . Ciò che invece manca è la percezione dell’esistenza di una “rete invisibile” che invece noi vediamo da anni e che coinvolge complessivamente migliaia e migliaia di cittadini attivi.
Tutte queste esperienze sparse per l’Italia sono come i punti di quel gioco enigmistico chiamato la “pista cifrata” in cui c’è una sequenza di punti disordinati. Solo collegandoli seguendo un certo ordine emerge un’immagine d’insieme comprensibile e familiare, in questo caso l’immagine dell’Italia dei beni comuni.
Meglio ancora, queste esperienze locali sono come tanti personal computer, ciascuno dei quali ha soltanto la potenza che serve per il singolo utente. Ma se con software appositi si collegano insieme migliaia di pc in quelli che vengono chiamati cluster di computer si ottiene una potenza di calcolo enorme, superiore a quella dei grandi centri di calcolo.
Allo stesso modo, se le micro esperienze locali di cura civica dei beni della comunità fossero collegate fra di loro, potessero scambiarsi conoscenze e competenze, evitando di ripetere gli stessi errori o di affrontare i medesimi ostacoli, il moltiplicatore rappresentato dal coordinamento di tutte queste esperienze avrebbe per l’organismo debilitato del nostro Paese l’effetto di un potente ricostituente.
Ci vuole una regia
La valorizzazione dell’impegno dei cittadini attivi per la cura dei beni delle comunità richiede una regia a livello comunale (nelle grandi città probabilmente anche a livello di quartiere), regionale e nazionale. Servono centri di informazione, sostegno e coordinamento dei cittadini che si attivano per i beni comuni, nello spirito dell’art. 118 ultimo comma della Costituzione, che prescrive ai soggetti pubblici di “favorire le autonome iniziative dei cittadini per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà “.
“Favorire” non vuol dire né esercitare poteri, né elargire denaro, bensìsvolgere una funzione di regia, coinvolgendo soggetti espressione delle diverse realtà territoriali, regioni, enti locali, università , fondazioni, organizzazioni civiche, soggetti del Terzo settore ma anche imprese, profit e non profit, coinvolti grazie alla sottoscrizione di Patti di cittadinanza per i beni comuni.
Queste cabine di regia, in particolare a livello locale, possono essere istituite autonomamente da organizzazioni civiche in rappresentanza della società civile, con il sostegno delle istituzioni. Oppure possono essere queste ultime a prendere l’iniziativa, coinvolgendo la società civile in tutte le sue articolazioni, secondo la logica della sussidiarietà circolare.
Oltre la Costituzione, i regolamenti
La creazione di queste cabine di regia costituisce oggi il modo forse più efficace per dare attuazione all’art. 118 della Costituzione e quindi al principio di sussidiarietà , organizzando e mettendo a sistema le tante, bellissime iniziative di cura civica dei beni della comunità sparse per il Paese.
Ma l’esperienza di questi anni di impegno sul territorio ci ha insegnato che alla legittimazione che proviene dalla Costituzione bisogna affiancare adesso anche quella che proviene dalle leggi e dai regolamenti.
Il Diritto amministrativo ottocentesco che disciplina l’azione delle nostre pubbliche amministrazioni costituisce un ostacolo per i politici e gli amministratori che vogliono applicare la sussidiarietà e un alibi per quelli che non vogliono applicarla.
D’altro canto non si può chiedere ai funzionari pubblici di applicare un principio costituzionale violando le regole del Diritto amministrativo vigente. E’ urgente elaborare un Diritto amministrativo per il secondo millennio, con nuove regole per un nuovo modello di amministrazione. Ed è esattamente quello che stiamo facendo con il Comune di Bologna, con l’obiettivo di regalare l’anno prossimo a tutti gli amministratori locali italiani un Manuale dell’amministrazione condivisa, completo di norme, modelli di delibere, esempi, tutto quello che serve per amministrare non soltanto “per conto dei” cittadini, ma anche “insieme con” i cittadini.
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