Le numerose microesperienze di agricoltura sociale radicate nei nostri territori stanno contribuendo a sviluppare una nuova concezione della terra e dei lavori ad essa legati. La lontana distinzione tra cittadini e contadini ed il disprezzo verso la fatica del lavoro agricolo stanno scomparendo; non solo le recenti indagini della Coldiretti mostrano come l’agricoltura sia uno dei pochissimi comparti economici in cui l’occupazione aumenta anche fra i giovani, ma come sostiene Alessandro Portelli in un recente articolo su Il Manifesto “gli agricoltori di oggi si sentono pienamente integrati in una cultura urbana in trasformazione”.
Roma terza città agricola d’Europa
Giovani residenti in città desiderano apprendere i saperi e le tradizioni della terra e adattarli alle nuove conoscenze tecnologiche con l’obiettivo di creare occupazione, di strappare metri quadri al cemento in una prospettiva di tutela ambientale e del paesaggio, di praticare sport all’aria aperta, di produrre alimenti sani, servizi per il territorio, progetti didattici e terapeutici, di recuperare il valore del lavoro manuale e più in generale di creare una nuova socialità legata al territorio.
Roma è la terza città agricola d’Europa, se a questo dato accostiamo l’analisi degli urbanisti Rossella Marchini e Antonello Sotgia che hanno stimato che nella capitale sono stati costruiti, e rimasti invenduti, appartamenti per un equivalente di 350mila abitanti, è possibile iniziare a comprendere l’esigenza crescente di riappropriazione della terra e di reinventare lo spazio urbano.
La Flai Cgil sostiene che solo a Roma l’agricoltura potrebbe dare lavoro a 35mila persone, secondo la Coldiretti il 42 per cento dei giovani in Italia, se avesse accesso alla terra, sarebbe disposto a darsi all’agricoltura. La mappa on line di Zappata romana, aggiornata al 2013, restituisce il quadro del grado di diffusione della pratica degli orti urbani nell’area romana; ma c’è di più. Spesso infatti le aree verdi e agricole sono lasciate al degrado e all’incuria e sono oggetto di scambi e “compensazioni” (previste dal piano regolatore che le rende merce preziosa per i costruttori) che hanno come unico risultato l’abbandono.
Borghetto San Carlo
Questa è la situazione di Borghetto San Carlo, sulla via Cassia fra La Storta e la Giustiniana, un’area del Comune di Roma con 22 ettari di pregiato territorio agricolo e un casale, che versa in stato di totale abbandono. L’appezzamento è stato acquisito dal Comune di Roma a marzo 2010 per cessione del costruttore romano Massimo Mezzaroma che già nel 2003 (con Delibera del Consiglio Comunale n.44/2003) si era impegnato a restituirla come compensazione urbanistica per le cubature di cemento riversate nell’ex IV municipio.
Nella deliberazione si prevede da parte del costruttore anche la ristrutturazione del casale e la sistemazione del parco sottolineando la necessità di tutelare e valorizzare un bene pubblico di tale portata e considerando l’alto pregio storico, ambientale e archeologico dell’area agricola e delle strutture rurali del Borghetto San Carlo. I lavori, che dovevano essere completati nel marzo del 2013, con un impegno di oltre 2 milioni di euro, non sono mai cominciati.
Con una petizione la Cooperativa Co.r.ag.gio. e Terra! Onlus, insieme al Coordinamento romano per l’Accesso alla Terra e all’associazione daSud, chiedono al neo sindaco di Roma che Borghetto San Carlo venga destinato ad attività di interesse pubblico. La cooperativa, formata da cuochi, architetti, braccianti, agricoltori e pedagoghi (dai 25 ai 35 anni) accomunati dalla medesima passione per l’agricoltura sociale, richiede: “il pieno utilizzo agricolo dei terreni, con coltivazioni biologiche di ortofrutta, piante aromatiche e officinali, accessibilità ciclo-pedonale, spazi da destinare a orti sociali per le famiglie del quartiere, attività di vendita diretta e ristorazione con i prodotti della zona, l’impiego di giovani disoccupati e di soggetti svantaggiati nelle attività agricole, con più di 30 posti di lavoro a regime, l’apertura di un agri-asilo pubblico, attività di formazione e di fattoria didattica, attività sportive e di ricreazione nel parco campagna aperto a tutti”.
Dal Quadraro all’Ardeatina il viaggio continua
Spesso, come è accaduto al Quadraro con l’esperienza dell’Orto insorto, i cittadini devono faticare parecchio per rendere i terreni di nuovo fertili, poiché anche se l’immaginario bucolico è forte, il lavoro della terra è pesante e non sempre fruttuoso. 6.000 metri quadri di terreno tra Torpignattara, Vigne e Quadraro, lasciati in stato di abbandono per 30 anni dall’Inps. In questo spazio dal 2011 si coltivano piante e si trapiantano alberi, si studia la vegetazione spontanea e la fitodepurazione in un contesto complesso come quello urbano, devastato dall’inquinamento e dagli scarichi industriali.
In questo quadrante particolarmente popoloso dell’urbe i minori risultati in termini di produzione agricola (si stanno studiando culture alternative) vengono compensati da un’incredibile opportunità di socializzazione, l’Orto insorto è infatti teatro di numerose iniziative culturali per il quartiere.
Siete sicuri di offendere un informatico dicendogli “vai a zappare”?
Dal 2010 circa venti lavoratori cassintegrati della Agile ex Eutelia Information Technology di Roma hanno deciso di continuare a stare insieme e superare cosìl’esclusione dalla realtà sociale e produttiva subita con la perdita del lavoro creando l’Eut-orto. Un terreno di 3.000 metri quadri sull’Ardeatina, all’interno dell’istituto agrario Garibaldi. coltivato da ex sistemisti, segretarie, controller di gestione, donne e uomini tra i 45 e i 55 anni.
Non è corretto utilizzare il termine “riscatto”, è forse una colpa perdere il lavoro a cinquant’anni?
Si può parlare invece di dignità , di scelta coraggiosa e di rivincita anche se quella che inizialmente si credeva potesse essere un’attività economicamente vantaggiosa al momento non è andata oltre l’autoproduzione e l’autoconsumo.
Gloria Salvatori, una delle protagoniste di questa esperienza ha raccontato a Giampaolo Colletti in una puntata di Penelope: “Ritrovarsi senza lavoro a cinquant’anni è come perdere la bussola, con il senso del tempo che si dilata. Le giornate si assomigliano tutte tra loro, ed è come vivere sospesi. Ecco allora che abbiamo pensato all’agricoltura perché avevamo bisogno di ancorarci. Il nostro orto collettivo è oggi un luogo dove andare con ciclicità , dove confrontarci, dove parlare di lavoro e di diritti negati”.
A breve pubblicheremo la seconda parte dell’approfondimento sulle esperienze di agricoltura sociale a Roma.
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