I cittadini sono protagonisti del cambiamento: perché?
“Indignarsi non basta”, questa è l’emblematica frase di apertura del libro di Settis. E già qui risiede una ragione essenziale del perché il cambiamento di cui la nostra società ha bisogno passa necessariamente attraverso i cittadini. La critica e lo sdegno sono punti morti, in cui ristagna la situazione attuale e continua a crescere il malcontento. Quel che invece la polemica e la disapprovazione possono essere, è la spinta per dare concretezza alle nostre rivendicazioni. Un passo che spetta ai cittadini in quanto proprietari della sovranità , parte necessaria e costitutiva dello Stato, cosìcome stabilisce anche la nostra Costituzione ex. Art.1. E se i cittadini non tornassero ad essere protagonisti della politica e delle decisioni assunte, si cadrebbe (e in effetti si è già caduti) in un pericoloso paradosso: i proprietari dei diritti e dei beni comuni, resterebbero possessori senza proprietà .
Negli ultimi anni però, qualcosa si muove. Lo testimoniano gli oltre 3 movimenti sorti in Italia a difesa dell’ambiente e del bene comune. “Gli anticorpi spontanei che i movimenti stanno esprimendo sono segno di buona salute della democrazia, ma esigono la pazienza e i tempi dell’analisi. Richiedono la saggezza necessaria per non identificare i governi (spesso nemici del bene comune) con lo Stato. L’orgoglio necessario per ricordarci che lo Stato siamo noi, i cittadini; […] L’intelligenza necessaria per raccogliere informazioni, sviluppare argomentazioni, identificare obiettivi di lungo periodo […]”.
Il lungo periodo, cioè la visione lungimirante del futuro è il punto di forza e la sfida in più che i cittadini possono vincere. Il futuro è l’orizzonte che la gestione attuale tralascia di guardare, generando ingiustizia e negando i diritti. Infatti questa miope direzione tralascia le prossime generazioni poiché lontane nel tempo, cosìcome quelle distanti nello spazio cioè i più poveri, considerato che occuparsi di loro non rende alcun ritorno immediato. E cosìla mancata ratifica di uno scambio, in una società che bada alla quantità piuttosto che alla qualità , costa perdita di giustizia e valori.
Il bene comune da perseguire e tutelare è invece completamente orientato al futuro. In questa logica solidarietà inter-generazionale e intra-generazionale si fondono. Non a caso diverse Costituzioni, come quella tedesca, polacca, sudafricana, inseriscono il concetto di “responsabilità per le generazioni future” tra i principi fondanti. E la nostra stessa Costituzione, pur non riconoscendolo esplicitamente, è completamente proiettata verso il futuro.
La class action non basta, è necessaria l’actio popularis:
Gli anticorpi spontanei che la società è stata in grado di produrre, non bastano. Quello che è necessario per dare maggiore forza alle battaglie a difesa dei beni comuni e del bene comune è il coordinamento, la capacità di analisi e di tracciare un progetto. “Dobbiamo dare contenuto e spessore ai valori e ai diritti, trapiantarli dalla dimensione individuale e privata a quella comunitaria, sviluppare una visione d’insieme improntata all’interesse generale, alla giustizia sociale, all’equità . Dobbiamo recuperare un’etica della cittadinanza che sappia far leva sui beni comuni e sui beni pubblici, cogliendo il continuum che li lega e il loro nesso con l’universo dei diritti. Dobbiamo riscrivere la tavola dei beni comuni alla luce della sovranità popolare”, questa l’esortazione di Settis e la chiave di lettura del suo libro. Nel fare questo i cittadini non sono soli, né senza guida. Lo strumento, che diventa mezzo e anche fine è la Costituzione. Un progetto che è ancora in divenire e che deve essere recuperato e realizzato.
Questo compito di cui tutta la collettività deve assumersi la responsabilità , necessita di un’azione popolare. Un concetto che non allude a derive populiste o vuote e generiche affermazioni utopiche. L’azione popolare, di cui parla Settis è “diritto e dovere di resistenza collettiva al degrado delle città e delle campagna, alla razzia del paesaggio […] è promuovere singole azioni di contrasto agli atti dei poteri pubblici che vadano contro il pubblico interesse, ma anche metterle in rete fra loro.” Concetto che ha un nobile antenato: l’ actio popularis, istituto giuridico del diritto romano. L’actio popularis prevedeva un’identificazione tra populus e cives, e in virtù di questo si riconosceva ai cittadini la possibilità di tutelare l’interesse generale agendo in giudizio, contro il governo ma a difesa dello Stato, in particolare per la tutela delle cose di in usu publico come fiumi, strade e ambiente. Il nostro ordinamento, invece, oggi riconosce solo la class action, cioè la possibilità di agire in giudizio ma se si ha un interesse individuale sotteso all’azione, venendo cosìmeno il diretto riconoscimento del singolo di agire in nome del pubblico interesse.
Recuperare l’identificazione tra cittadini e popolo per perseguire l’interesse collettivo, vuol dire far rivivere lo Stato-Collettività . Far sentire la propria voce e agire affinché l’agenda politica e le istituzioni ri-orientino la propria azione in vista del bene comune e dell’interesse generale, questo l’approdo del cammino, il risultato da perseguire tramite l’azione popolare.