La riflessione sulla attivazione del capitale sociale, su un modello di relazioni che conosca non solo la adesione a valori comuni, ma anche la costruzione partecipata del benessere collettivo, si concentra a mio parere troppo spesso sulla illustrazione di architetture (istituzionali, sociali, economiche) ipotetiche, sull’invocazione di solidarietà possibili e la predicazione di cittadinanze virtuose.
Di questi tempi invece, spinti dall’incalzare della crisi, si dovrebbe cogliere l’opportunità di promuovere il modello sussidiario nei fatti, e ciò specialmente a livello locale ove, per la quotidiana frequentazione reciproca dei diversi attori in campo, è in gran parte condivisa se non l’opinione sulla terapia da adottare, almeno la diagnosi delle patologie che gravano su quel determinato contesto. C’è, in sostanza, bisogno di strumenti e di azioni, e non di ipotesi e auspici.
Per questo dedico queste poche righe a stilare (senza nessuna pretesa di assolutezza o esaustività ) quella che a mio parere potrebbe essere un’agenda ideale del governo locale, mettendo in fila alcune delle cose che, volendo muoversi nel senso predicato, possono essere fatte subito.
1) Per quanto riguarda le istituzioni locali, che sono e restano al centro dell’attivazione del paradigma sussidiario, si tratta di incominciare un cambiamento profondo di atteggiamento, di ruolo. L’amministrazione locale, per poter accogliere le risorse presenti nella società , deve da una parte riconquistare la specificità e l’autorevolezza del proprio ruolo di detentrice della funzione pubblica e di autorità che non solo può, ma deve decidere quali attività svolgere in proprio. Dall’altra deve divenire dialogante, semplificata, aperta, e soprattutto flessibile. Infatti, a riguardare le esperienze che Labsus ha raccolto in questi anni, il giusto ” clima sussidiario ” si è venuto a creare solo ove l’amministrazione si sia adoperata per rendere la vita facile ai cittadini, per parlare con loro, dargli credito,avendo scelto quali fossero gli ambiti (non solo geografici) in cui la loro autonoma iniziativa poteva essere meglio spesa, e come.
Si tratta quindi di adottare strumenti utili a questo scopo, che vanno dalla rivisitazione degli apparati di comunicazione e trasparenza alla promozione di processi di semplificazione, dalla destinazione di personale alla facilitazione e alla diffusione dell’azione sussidiante alla definizione di mezzi per il supporto materiale della stessa (e che possono andare dalla messa a disposizione di edifici alla predisposizione di percorsi di formazione).
A ben vedere, si tratta di fare molto con poco, ma di farlo mettendo in discussione il modo stesso con cui l’amministrazione si è da sempre proposta alla comunità di cui si prende cura.
2) Se è vero che quello che cerchiamo è una diversa relazione tra gli attori del modello sussidiario, allora non v’è dubbio che a un cambiamento dell’amministrazione debba fare da contraltare un cambiamento anche da parte dei soggetti sussidianti, della cittadinanza attiva. E anche in questo caso ciò che si deve fare è apparentemente semplice, eppure comporta una evoluzione profonda.
Incominciamo col dire che non esiste un ” terzo settore ” buono per definizione. Piuttosto ogni associazione, comitato, individuo deve dar prova del proprio saper e voler fare bene nell’interesse generale. Ciò comporta l’accettazione di una regolazione della loro attività (pur libera, autonoma), che definisca per tratti essenzialile garanzie necessarie a tutelare gli individui come singoli e come membri della collettività , che determini gli standard minimi delle loro prestazioni e apra anche a forme di concorrenza tra loro. Ciò consente ai soggetti sussidianti non solo di valorizzare la loro specificità e le loro capacità , ma anche di acquisire una legittimazione (non tanto giuridica, quanto sostanziale) più forte, e quindi di potersi muovere con maggiore incisività e visibilità nelle dinamiche dei nostri diversi territori.
3) Nel senso sopra indicato, inoltre, credo che si debba fare uno sforzo per includere nel circuito sussidiario anche quelle realtà che fino ad ora si sono (o sono state) tenute distanti. Intendo riferirmi alle fondazioni, che fino ad ora hanno dato il loro contributo alle comunità locali seguendo percorsi loro distinti, difficilmente immaginati e mai integrati con le iniziative di gruppi di cittadini attivi e responsabili. Penso alle cooperative, che nella autoproduzione di beni e servizi (per lavoratori, soci, collettività ) hanno non solo la loro origine, ma anche la loro attualissima ragion d’essere. E penso alle imprese, che devono essere incentivate a rafforzare il loro impegno, la loro partecipazione ai destini del territorio e dunque la loro responsabilità sociale. Occorrono luoghi (non solo virtuali) di connessione e incontro tra queste diverse forze, e occorre soprattutto dimenticare e superare le barriere del pregiudizio e l’antagonismo sterile, di posizione, che di fatto oggi si traduce in una sconfitta di tutti.
Come si vede, si tratta in tutti i casi di cambiare mentalità , di disporsi al nuovo e all’altro da sè. Non c’è bisogno di disporre di fondi e di progettare investimenti (oggi pressoché impossibili). Né tantomeno si devono attendere gradi riforme strutturali, continuando a dare la colpa all’ordinamento amministrativo per la mancata realizzazione di un sistema locale più aperto all’offerta di risorse da parte della cittadinanza. Le norme possono essere carenti, insufficienti o per certi tratti ostative, ma di certo non impediscono la attivazione di modelli amministrativi (e poi sociali, economici) capaci di recepire pienamente l’idea (e l’offerta) sussidiaria.
La responsabilità per la mancata realizzazione di questa dimensione più giusta sarà quindi da attribuire non alle leggi, o al denaro, ma agli uomini, al loro insufficiente impegno e alla loro mancanza di coraggio.
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