Ogni giorno sempre più ampie porzioni di terra vengono consumate dalla speculazione edilizia, inquinamento, agricoltura intensiva e cementificazione. Tuttavia coltivare la terra in modo partecipato e responsabile sembra essere una scelta che stanno compiendo sempre più cittadini, consapevoli che fermare il consumo indiscriminato della terra è ormai questione di sopravvivenza. Ciò significa sperimentare nuove forme di accesso alla terra e di sviluppo agricolo che tutelino gli ecosistemi e valorizzino la partecipazione, ma che, soprattutto, difendano il principio della “terra bene comune“.
La Terra, infatti, esprime “utilità fondamentali che corrispondono a valori costituzionalmente tutelati e che pertanto devono essere salvaguardate per permetterne la fruizione da parte dell’intera collettività “. I cittadini, del resto, come sottolinea Salvatore Settis nel suo libro “Paesaggio Costituzione cemento”, in forza dell’articolo 8 comma 4 della Costituzione, hanno tutti i titoli per proporsi come difensori del bene comune Terra. Terra che, spiega l’autore, è vittima di un’urbanizzazione sempre più feroce, colpevole della soil sealing, letteralmente “copertura del suolo”, che determina una perdita irreversibile delle sue funzioni ecologiche.
Terre incolte da recuperare
Nonostante negli ultimi 40 anni siano andati persi quasi 5 milioni di ettari di superficie coltivata in favore dell’espansione edilizia, sempre più frequenti si fanno le esperienze di riuso sociale ed ambientale del patrimonio non utilizzato, sottoutilizzato o abbandonato. Protagonisti di queste buone pratiche di recupero associazioni, cooperative e movimenti di cittadini che si muovono verso un’agricoltura “civica”, ossia basata sul coinvolgimento delle comunità locali e pratiche sociali, economiche e ambientali sostenibili. Coldiretti in Italia ha stimato 338mila ettari di terreni agricoli di proprietà dello Stato che potrebbero essere, anziché “svenduti”, valorizzati. Al primo posto c’è il Piemonte seguito da Lazio e Trentino. Anche la Toscana vanta di ettari di proprietà pubblica da salvaguardare. Ecco perché la regione Toscana, prima in Italia, ha istituito la Banca della Terra, atta a censire ed affidare a giovani agricoltori, riuniti in cooperative agricole, terreni abbandonati o incolti. Una soluzione che sembra invertire la tendenza dell’esclusione con quella dell’inclusione per una libera condivisione delle risorse, quella stessa soluzione auspicata da Vandana Shiva in “Il bene comune della Terra”.
La Banca della Terra
“Con la Banca della Terra la Regione Toscana fa da apripista a livello nazionale per un nuovo modello di sviluppo, un modello di sviluppo sostenibile che valorizza le risorse invece di lasciarle abbandonate e contribuisce a garantire lavoro ai giovani e presidio dell’ambiente contro il dissesto idrogeologico”, sottolinea l’assessore regionale all’Agricoltura Gianni Salvadori. A circa un anno dal varo delle legge regionale che istituisce l’ente “Terre di Toscana” prende il via la fase operativa della Banca della Terra, con la pubblicazione dei primi bandi per l’assegnazione delle terre “abbandonate” o “incolte”. Una volta completata la procedura delle richieste l’ente comunicherà gli esiti al Comune che procederà alla occupazione temporanea, e non onerosa, dei terreni assegnandoli al richiedente, che sarà tenuto a coltivarli nei modi e tempi specificati nel piano di sviluppo. Al proprietario del fondo spetterà un canone, determinato dall’ente Terre di Toscana o di comune accordo tra proprietario e assegnatario. Una iniziativa nata, dunque, per aumentare le opportunità occupazionali e valorizzare nel contempo il patrimonio agricolo regionale.
LEGGI ANCHE :
- Paesaggio Costituzione cemento
- La terra selvaggia come primordiale bene comune da salvaguardare
- Terra e democrazia