La cittadinanza attiva è il 34% dell ' universo osservato e, con i suoi 103mila enti che praticano mission civiche di solidarietà , costruisce un sistema di relazioni con le istituzioni pubbliche e con le imprese private segnato fortemente dal principio sussidiario

L’Istat ha presentato il 16 aprile a Roma i dati del Censimento 2011 sul non profit, con un ampio contributo di studiosi per l’approfondimento. In una delle sessioni parallele si è trattato del ” valore aggiunto ” del non profit, su proposta del prof. GB. Sgritta, che con M. Lori ha coordinato e introdotto tali lavori. A me è stato chiesto di trattare della coesione sociale. Ho scelto di titolare Solidarietà  e coesione: nei documenti europei e anche nel Rapporto sulla coesione sociale, che da quattro anni lo stesso ISTAT produce, il richiamo alla coesione è insistito, ma si dice genericamente che si tratta di un risultato di molti fattori e politiche (sulle politiche pubbliche appunto ISTAT raccoglie e ordina dati: famiglia, occupazione, sanità , immigrazione). Mi è sembrato utile chiarire il rapporto che con questo risultato hanno le attività  solidali dei cittadini, accanto e oltre le politiche di integrazione delle istituzioni.

Ho potuto a tal fine concentrare il mio intervento sulle risposte alla domanda 27, inserita per la prima volta nel Censimento (e nuova anche nel panorama europeo). La proposta di inserimento, accolta dall’allora presidente Istat Giovannini, fu avanzata dalla Fondazione presieduta da Giovanni Moro (Fondaca): si voleva valutare quante effettivamente fossero e cosa facessero le organizzazioni che propriamente possono dirsi di ” cittadinanza attiva ” nel senso indicato nell’art.118 4 ° comma della Costituzione (cioè quelle che realizzano con autonoma iniziativa interessi generali, e pertanto esercitano potere sussidiario dal basso, vincolando Stato Regioni Province e Comuni a favorirne l’attività ).

Le risposte alla d.27 del Censimento sono state 143.218, pari al 47,5% delle 301.191 inp censite. Si chiedeva se l’inp ha per mission la tutela di diritti, o il sostegno a soggetti deboli, o la cura di beni comuni (Istat ha preferito dire: collettivi. Ma poi suggeriva l’esempio dell’acqua, dei beni storico-culturali ecc.). Molte le inp che realizzano almeno una delle mission, ma molte anche quelle che ne indicano due e anche tutte e tre.

La domanda si è rivelata quindi utile, contiene un ” filtro ” attraverso cui si può giungere a una tripartizione molto importante per valutare diversi ruoli e responsabilità  del c.d. Terzo Settore: lo indicherò tra poco. Gradi diversi di ” utilità  sociale ” infatti sono resi evidenti se si riflette sulle effettive attività , invece che limitarsi a considerare le autodefinizioni identitarie, o le caratteristiche organizzative e le definizioni giuridiche, come tradizionalmente si fa nelle analisi di questo mondo.

Partendo dal punto di vista relativo alle attività  concrete, si può osservare come le autonome iniziative dei cittadini realizzino o meno fini di inclusione e integrazione sociale. Non tutte le attività  dette non profit sono ugualmente rilevanti in questo senso. Incrociando le risposte alla domanda 27 con quelle a una domanda sui destinatari dei loro servizi (la n.7, che chiede se si tratti solo di soci o anche di altri), si perviene agevolmente a cogliere tre diverse gradazioni di utilità  sociale delle inp.

La libertà  associativa e il pluralismo della nostra società  consentono a un gran numero di organizzazioni di soddisfare i bisogni di socialità  in tutti i settori (dallo sport, alle attività  di culto, ricreative, sindacali e politiche, ma anche per le scuole, la ricerca, lo sviluppo economico ecc.). Possiamo usare questa definizione per la maggioranza di inp (52,5%) che non rispondono alla d.27 circa le mission di rilievo costituzionale.

La risposta positiva alla d. 27 indica invece un impegno solidaristico più marcato, ma il grado di inclusività  può essere diverso: inclusione in una comunità  circoscritta (i soci, gli associati, una categoria di lavoratori, i credenti ecc.), oppure inclusione di ogni persona lo richieda o ne abbia bisogno nelle protezioni generali e nell’accesso a beni comuni della comunità  più larga di riferimento. Nel primo caso si può parlare di solidarietà  mutualistica, tra soci appunto (circa 40mila enti, il 13 %), nel secondo si manifesta una attitudine delle attività  civiche a costruire una società  aperta e equa: è questa precisamente la estensione della cittadinanza attiva ai sensi della Costituzione italiana, che con la revisione del 2001 ha inserito questo ” attore ” della solidarietà  in una prospettiva di sussidiarietà  tra cittadini e istituzioni, nel quadro di forte cambiamento nella costruzione della sfera pubblica.

E’ appena il caso di far notare che solo l’ultimo gruppo, la cittadinanza attiva, delinea caratteri generali di un contesto sicuramente coeso (uguaglianza delle persone, rispetto della pari dignità , sostegno a coloro che sono in difficoltà , cura e accesso per tutti a beni comuni). La sola solidarietà  non basta a dare certezza di questo: forme di solidarietà  corporative e esclusive (l’idea ” padana ” , certi fondamentalismi religiosi e culturali) inducono al contrario forti tensioni sociali e spinte disgregative

La cittadinanza attiva dunque è il 34% dell’universo osservato e, con i suoi 103.000 enti che praticano mission civiche di solidarietà  aperta e inclusiva, costruisce un sistema di relazioni con le istituzioni pubbliche e con le imprese private segnato fortemente dal principio sussidiario.

I dati sui contratti e le convenzioni indicano ombre e luci in questa direzione. Le istituzioni pubbliche comunque riversano in media il 30% del proprio sostegno a favore di inp che non perseguono mission specifiche. Poi, un piccolo numero di inp (16,7%) accentra più del 91% delle risorse, con contributi pari o superiori ai 500mila euro per contratto: si tratta quasi certamente di contratti per ” servizi pesanti ” , che Regioni e Comuni – interpretando erroneamente la sussidiarietà  come ” esternalizzazione ” dei servizi locali per diritti sociali costituzionalmente garantiti – richiedono al cosiddetto ” privato-sociale ” . Ma servirà  avere i micro-dati per verificare l’ipotesi. Sembrerebbe che la autonomia delle inp coinvolte possa essere ” eterodiretta ” a quei fini – magari attraverso il sistema di bandi. Ma il fatto che 45mila inp siano impegnate per un totale di contratti/convenzioni che supera i 214mila, indica che mediamente ciascuna di esse sia titolare di 4-5 contratti o convenzioni e quindi che nell’insieme esse manifestino una notevole capacità  di fundraising, che probabilmente difende la autonomia nel perseguimento della mission prescelta.

Il dato più interessante, rispetto all’idea di sussidiarietà  come nuova forma di governance di un sistema di welfare-mix, si ricava dal quadro delle intese e dei patti che molte inp riescono a istituire con apparati pubblici, o con imprese private, o infine tra loro. La partnership è finalizzata al perseguimento delle mission prescelte dalle inp: ne emerge un sistema di relazioni molto significativo, che include anche la ” responsabilità  sociale ” delle imprese e la capacità  di molte inp di ” trascinamento ” delle istituzioni pubbliche e delle imprese verso obiettivi ” di interesse generale ” . 103mila enti di cittadinanza attiva hanno promosso quasi 130mila intese/patti di questo tipo. Anche qui: servono i micro-dati per capire quali obiettivi e che modello di sussidiarietà  si stia sviluppando. Ma il ” fervore costruttivo ” di queste forze è già  una certezza incoraggiante.

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