Sulle pagine di questa rivista ci siamo spesso soffermati ad analizzare come l’impegno civico dei cittadini attivi nei confronti dei beni comuni possa cambiare i rapporti con le amministrazioni, ridefinire la nozione di partecipazione politica, rimettere in moto i meccanismi fiduciari. Raramente abbiamo analizzato come un rinnovato senso di responsabilità e una gestione condivisa dei beni comuni possano cambiare l’estetica della vita quotidiana e gli spazi pubblici. E’ in questa prospettiva che ” l’interesse generale ” richiamato dall’art. 118, comma quarto, si apre ad una serie di interpretazioni che mettono in discussione alcuni aspetti del vivere associato cosìcome li abbiamo conosciuti nella modernità .
Ripartire dai beni comuni
Converrà ripartire dalla natura dei beni comuni per comprendere meglio perché questi implichino anche una nuova estetica (oltre che una nuova etica).
Come afferma Donolo, ” i beni comuni sono un insieme di beni necessariamente condivisi. Sono beni in quanto permettono il dispiegarsi della vita sociale, la soluzione di problemi collettivi, la sussistenza dell’uomo nel suo rapporto con gli ecosistemi di cui è parte. Sono condivisi in quanto, sebbene l’esclusione di qualcuno o di qualche gruppo dalla loro agibilità sia spesso possibile ed anche una realtà fin troppo frequente, essi stanno meglio e forniscono le loro migliori qualità quando siano trattati e quindi anche governati e regolati come beni ‘in comune’, a tutti accessibili almeno in via di principio ” . In maniera simile, Arena definisce i “beni comuni” come “quei beni che se arricchiti, arricchiscono tutti e se impoveriti impoveriscono tutti”.
I beni comuni si collocano inoltre ” al di là ” di una dimensione meramente acquisitiva del bene, in una sfera che ridefinisce la nozione stessa di ” spazio pubblico ” , rispetto alla tradizionale contrapposizione pubblico/privato dove il pubblico si identifica con lo stato e il privato con il mercato (Mattei, Rodotà ).
Condivisione, responsabilità e partecipazione sembrano essere le parole chiave che sono alla base di questa tipologia di beni e a partire da ciò individuano una nuova estetica, capace di dare forma ad un paradigma culturale nuovo che investe una serie di pratiche quotidiane.
Un cambiamento di paradigma
A ben vedere si tratta di un profondo mutamento, che investe l’economia, la politica, l’architettura, il design e che mette in discussione il paradigma della modernità : l’uomo al centro dell’universo che progetta lo spazio circostante – politico, sociale, urbano – mosso da un’esigenza di controllo sulla realtà a partire da modelli culturali (e a volte ideologici) di riferimento. Non importa quale sia il contesto, importante è il progetto (o il progettista) e la sua realizzazione.
Gli spazi pubblici in particolare hanno risentito di questo paradigma: destinati a rappresentare il potere, hanno assolto questa funzione imponendosi nel panorama urbano, senza tenere conto del ruolo che in democrazia svolgono i cittadini. La modernità è popolata di palazzi del potere – parlamenti, hà´tel de ville, regge – che mettono in scena una rappresentazione della cosa pubblica dalla quale i cittadini sono esclusi. Allo stesso modo sono stati concepiti altri luoghi istituzionali – teatri, musei, scuole, università – dove i cittadini possono essere solo spettatori di un progetto pensato per loro, ma senza di loro.
Alla definizione di questo paradigma ha dato un contributo determinante l’economia. A partire dall’affermazione del capitalismo, il paradigma economico fondato sul calcolo costi/benefici, ha dominato incontrastato. Tradotto nel moderno efficientismo e nelle politiche neoliberiste, ha imposto scelte dettate dalle esigenze del mercato e del profitto, ma incuranti nei confronti dei beni comuni che potevano essere consumati all’infinito, senza tenere conto delle generazioni future e delle conseguenze che si sarebbero prodotte su di esse.
L’economia è una disciplina che ha la sua ragion d’essere in un dato di fatto incontrovertibile: la scarsità delle risorse. Se in alcuni casi le risorse sono realmente scarse – acqua, terra, fonti energetiche – in altre (la maggior parte) tale scarsità può essere riprodotta artificialmente ad uso e consumo delle regole del mercato. Descritta in termini di obsolescenza programmata dei beni, tale tendenza si è fondata sulla stimolazione infinita dei consumi e sulla filosofia dell’usa e getta, interpretate come sinonimo di modernità e efficientismo.
L’azione congiunta delle esigenze di autorappresentazione sociale della borghesia e del sistema produttivo si è tradotta in una produzione di massa, che ha alimentato la sfera dei consumi senza tenere conto delle conseguenze che tale atteggiamento avrebbe comportato.
Oggi al contrario, secondo l’economista ambientale Paul Connet, studioso delle problematiche economiche legate alla produzione di rifiuti, ” se una cosa non la puoi riciclare, riutilizzare o compostare…non la produrre! ” .
L’estetica dei beni comuni
La nuova estetica non può che ripartire dai principi di condivisione, responsabilità e partecipazione che sono alla base dei beni comuni. Si recupera cosìla dimensione originaria della parola greca (aisthesis), ” sentire, provare insieme ” : è una comunità che si ritrova a partire da un sentire comune condiviso.
1. La prima conseguenza è il sovvertimento delle gerarchie decisionali. E’ un’abitudine radicata che siano gli altri – gli amministratori, i politici, gli architetti – a progettare gli spazi in cui viviamo, con una delega in bianco sull’aspetto finale assunto dalle città e dai quartieri. Se questo da una parte ha sollevato i cittadini da una serie di preoccupazioni e responsabilità , dall’altra ha spesso fatto sìche non si sentissero a casa loro negli spazi in cui vivono o che non avessero la possibilità di intervenire su come realizzare qualcosa a loro destinato – un parco, un marciapiede, una strada, un campo sportivo, un servizio sanitario – pur essendo portatori di competenze, professionalità in materia e di un senso comune diffuso all’interno della comunità . Come afferma Paolo Jedlowski ne Il sapere dell’esperienza ” il senso comune è l’insieme di ciò che ognuno considera ovvio, all’interno di una certa comunità , e in un dato momento della storia […] è ciò che sappiamo in relazione alle faccende che sbrighiamo e ai ruoli che ricopriamo nella vita quotidiana […] il senso comune è una memoria sociale ” , un patrimonio di conoscenze che va valorizzato e riscoperto.
2. Una seconda conseguenza è costituita dall’abbandono di una logica acquisitiva nei confronti degli spazi e dei beni a favore di un modello condiviso. L’esempio più evidente di questo cambiamento riguarda il settore della mobilità urbana: la diffusione di pratiche di mobilità sostenibile (car sharing, bike-sharing, carpooling) ridefiniscono il concetto di mezzo di trasporto in termini di strumento di acquisizione di status, a vantaggio del recupero di dinamiche relazionali. L’auto, status symbol per eccellenza, diviene strumento di mobilità che può anche essere condiviso con altri. Anche gli spazi pubblici risentono di questo spirito: la pratica del community gardening attribuisce un valore diverso alla cura degli spazi verdi: non importa a chi appartenga il giardino, quanto che sia condiviso con gli altri, che sia ” realizzato insieme ” .
3. La terza conseguenza chiama in causa la relazionalità . Sono le relazioni sociali a definire la natura degli spazi e degli oggetti; la finalità sociale ha il sopravvento sulla concezione estetica o meglio gli dà forma. E’ il superamento della nozione di non-luogo elaborata dall’antropologo urbano Augé, il quale afferma che un luogo per essere tale deve essere identitario, relazionale e storico, altrimenti è un non-luogo. Da questo punto di vista, non si tratta tanto di mettere in atto un cambiamento delle forme esteriori, quanto delle relazioni sociali che si stabiliscono all’interno degli spazi e nel rapporto con gli oggetti. Ecco allora che ogni spazio diventa un luogo a partire dalle relazioni – passate, presenti e future – che si stabiliscono al suo interno. Allo stesso modo, nel rapporto con gli oggetti si realizza il superamento della logica dell’ ” usa e getta ” che recide il rapporto con gli oggetti.
Dall’emergenza alla normalità
Si tratta di operare il passaggio dall’emergenza alla normalizzazione nelle pratiche di vita quotidiana di comportamenti che risultino ad ogni livello responsabili.
C’è chi ancora trova antiestetici i cassonetti per la raccolta differenziata o i contenitori colorati che dobbiamo tenere in casa; chi ritiene che le pale eoliche deturpino l’ambiente (chissà cosa avrebbe detto Don Chisciotte) e i pannelli fotovoltaici non siano paragonabili alle tegole; chi si indigna se le catene alberghiere non provvedono al cambio della biancheria giornalmente o invitano a non sprecare l’acqua, come se vivessimo in un’eterna condizione di emergenza dalla quale prima o poi usciremo per tornare alle nostre abitudini di un tempo!
In tutti questi casi non sono gli oggetti e gli spazi ad avere importanza, ma il cambiamento delle pratiche di vita quotidiana che c’è dietro. L’architettura e il design possono fare molto in questa opera di ” normalizzazione ” dei cambiamenti in atto.
Gli spazi della partecipazione
Chi non ricorda dai libri di scuola il celebre Speakers’ Corner di Hyde Park, prova evidente che la democrazia ha bisogno di poco per essere praticata? L’estetica dei beni comuni non riguarda solo le pratiche di vita quotidiana, ma chiama in causa la qualità della democrazia.
Non è un caso che oggi gli architetti si preoccupino di progettare i nuovi spazi della partecipazione o parlino di ” spazi pubblici attivatori di cittadinanza (SPAC) ” , vale a dire spazi pubblici dismessi o abbandonati che per il loro uso diventano potenziali attivatori di cittadinanza. Si parla di condomini multiculturali, che devono conciliare sul piano abitativo e amministrativo, diverse culture ed etnie, con i relativi usi e abitudini quotidiane, favorendo cosìl’integrazione.
Spazi pubblici oggetto di una cura condivisa tra cittadini e amministrazioni, come proposto dal ” Regolamento sulla collaborazione tra cittadini e amministrazione per la cura e rigenerazione dei beni comuni urbani ” , promosso da Labsus in collaborazione con il Comune di Bologna e ora in fase di adozione da parte di diversi comuni in Italia. Il Regolamento parla di un ” Patto di collaborazione ” , attraverso il quale Comune e cittadini attivi definiscono l’ambito degli interventi di cura o rigenerazione dei beni comuni urbani. In questo modo, la visione di come sarà la città del futuro sarà il frutto essa stessa di un progetto condiviso e partecipato, che rende l’operato dell’amministrazione maggiormente trasparente e tutti – cittadini e amministratori – reciprocamente responsabili.
Leggi anche:
La terza rivoluzione istituzionale
Comunicare i beni comuni
Oltre l’individualismo