Il Rapporto sul Futuro del Teatro Valle è uno strumento di dialogo al servizio dell ' interesse generale

Forse per la prima volta, un decisore politico italiano ha deciso di investire sull ' erede contemporaneo di quel metodo e cioè sull ' arte dell ' ascolto e la civiltà  del dialogo pubblico, per affrontare una questione cruciale nella propria agenda. Ci riferiamo alla questione del Teatro Valle

Un Paese moderno non rinuncia a guardare in faccia la realtà  e ad affrontare problemi che rischiano di dilaniare la società . Un Paese moderno investe sull’ascolto, sul dialogo, sul confronto trasformativo dei punti di vista. Non lascia che la ” partecipazione partecipata ” (per lo più dai soliti noti), la rappresentazione di e la concertazione tra interessi (in genere molto ben organizzati) degeneri in scontro sociale, economico ed istituzionale. Un Paese moderno sceglie coraggiosamente di dotarsi di strumenti tecnici e professionalità  sofisticate per costruire arene deliberative dove i diversi punti di vista della comunità , anche quelli meno organizzati e non per questo minoritari, anzi, trovino uno spazio di ascolto e dialogo funzionale alla ricerca di una sintesi armonica ispirata da un unico criterio che è la tutela dell’interesse generale, dell’interesse di tutti, non della somma algebrica di interessi privati o pubblici, sociali o politici, economici o associativi. Il metodo che ha ispirato il processo deliberativo che ha condotto alla stesura del Rapporto sul futuro del Teatro Valle sottintendeva tutto questo e merita attenzione almeno pari al merito delle argomentazioni o soluzioni in esso contemplate.

L’idea moderna di società  civile nasce quando a un certo punto nella società  dell’Ancien Régime della Francia del ‘600-‘700 un gruppo di persone decide di rivendicare la possibilità  di scegliere autonomamente cosa pensare dell’arte, della letteratura e del mondo in genere. E per farlo sottolinea la propria distanza sia dalla corte e quindi dal potere politico, sia dalla Sorbonne, e quindi dall’accademia istituzionalmente intesa, sia dai rappresentanti del potere religioso, e quindi dal potere sociale più influente al tempo. E’ una società  in cui si coltiva l’utopia dell’armonia, del saper vivere insieme agli altri, del prendersi il tempo e l’opportunità  di ascoltare. E’ la società  al cui interno matura quella che Benedetta Craveri ha definito l'”arte della conversazione“.

La civiltà  della conversazione

La Craveri, che della società  della conversazione è studiosa, ha scritto che al tempo ” il talento di ascoltare era più apprezzato che quello di parlare, e una squisita cortesia frenava l’irruenza e impediva lo scontro verbale. […] Ieri parlare con l’altro significava avere voglia di conoscerlo e di scoprire cose nuove in se stessi con piacere. Oggi mi sembra che quando si sta insieme, e si parla, si rasenti l’autismo. Usiamo la conversazione per auto-gratificarci, per colmare la nostra insicurezza e questo non ci permette né di conoscere il nostro interlocutore, né di divertirci. La regola del conversatore contemporaneo è sopraffare l’altro”. Questo ideale di conversazione, che coniugava la ricerca della verità  con la tolleranza e con il rispetto dell’opinione altrui, nasce in spazi privati e ha sempre esercitato una grande attrazione sulla società  contemporanea. Esso ha cessato di essere l’ideale di una società  intera, è consegnato a un’esistenza elitaria ed è gelosamente coltivato come appannaggio di pochissimi.

Dalla civiltà  della conversazione privata alla civiltà  del dialogo pubblico

Forse per la prima volta, un decisore politico italiano ha deciso di investire sull’erede contemporaneo di quel metodo e cioè sull’arte dell’ascolto e la civiltà  del dialogo pubblico, per affrontare una questione cruciale nella propria agenda. Ci riferiamo alla questione del Teatro Valle. Materiale esplosivo per la politica e per gli interessi economici in gioco, materiale altamente controverso dal punto di vista sociale e culturale. Eppure tre anni di occupazione illegale (per alcuni) o gestione informale (per altri) di uno dei luoghi simbolo della cultura a Roma sono trascorsi senza che alcuna istituzione pubblica o privata si prendesse la briga o avesse il coraggio di abbandonare la sponda su cui era e poteva restare comodamente appollaiata in attesa degli eventi (per esempio una soluzione di ordine pubblico, un abbandono per stanchezza, ecc.).Un’istituzione, l’Assessorato alla Cultura, Creatività  e Promozione Artistica di Roma Capitale, ha deciso di affrontare la vicenda come si farebbe in un Paese moderno, rinunciando ad opachi tavoli di lavoro istituzionali o amministrativi, evitando le assemblee accese e ” partecipate ” o ” conflittuali ” dove vince chi grida più forte o chi è più organizzato. E ha deciso di aprire un processo pubblico, aperto, trasparente di democrazia deliberativa.

Cos’è la democrazia deliberativa

Un processo deliberativo, non nel senso di decisionale, bensìnell’accezione anglosassone e scientifica di dialogico, diretto all’ascolto ragionato, disciplinato e organizzato dei diversi segmenti sociali, economici e istituzionali che compongono, gestito da esperti di diversa estrazione culturale e disponibili alla trasformazione delle proprie preferenze individuali e dei propri punti di vista di partenza, insomma a cambiare idea di fronte a una soluzione oggettivamente più convincente.La missione assegnata a questi professionisti non era l’assunzione di una decisione e men che meno la delega a dirimere un conflitto. Tutt’altro, il compito assegnato a questi ” professionisti della democrazia deliberativa ” , che si sono prestati a titolo volontario, è stato dapprima quello di aiutare l’istituzione a concepire e gestire il percorso dialogico e poi di agire da cittadini equipaggiati/attrezzati di competenze tecniche in vista della ricerca di una sintesi armonica dei diversi punti di vista e opinioni (tanto dei soggetti più organizzati e dunque con maggiore capacità  di accesso all’ascolto da parte del decisore pubblico, quanto dei gruppi sociali più fluidi e informali e tradizionalmente trascurati proprio per questa loro natura) emerse nel percorso deliberativo. Il tutto con l’ottica di giungere alla definizione di una piattaforma sulla quale fondare il percorso successivo volto alla definizione di una decisione pubblica concepita solo ed esclusivamente nell’interesse generale, di un bene cioè superiore rispetto ai beni pubblici o privati, in un’ottica cioè di bene comune.

Il regolamento di Bologna e il dialogo come metodo di governo

A questo metodo e a questi principi si ispira anche il Regolamento sulla collaborazione tra cittadini e amministrazione per la cura e la rigenerazione dei beni comuni urbani. Tutte le volte che esiste la necessità  di definire tanto nella fase genetica, cosìcome nel corso della vita del rapporto di collaborazione disciplinato dal Regolamento una visione di interesse generale in grado di fondare una scelta pubblica (tradizionalmente assegnata al circuito della democrazia rappresentativa) cosìcome quando è necessario prevenire o superare conflitti potenziali, latenti o attuali nella comunità , il Regolamento suggerisce all’amministrazione il ricorso alla tecnica dell’ascolto, al metodo del dialogo utilizzando procedure di tipo partecipativo o deliberativo (art. 2, comma 1, lett. a), 10 comma 7, art. 16, comma 1). Per le istituzioni pubbliche che vogliano affrontare le sfide della modernità  e fondare un nuovo paradigma istituzionale e un nuovo metodo di governo, ponendosi come ” registi ” o ” facilitatori ” di risposte condivise, e non come autori solitari di soluzioni di tipo autoritativo o erogativo-prestazionale ai bisogni della collettività , questa strada è imprescindibile. Il dialogo come pietra angolare di questo nuovo metodo di governo affonda le proprie radici nel ” federalismo come metodo di governo ” , federalismo inteso come strumento di valorizzazione delle autonomie individuali e collettive tenute assieme da un legante comune, l’interesse generale per l’appunto.

Il filo interrotto del dialogo sul Valle e l’arte di distinguere

In un’Italia e in una città  come Roma, bloccata dai conflitti e soffocata dalle visioni particolaristiche, atomistiche, parcellizzanti, attenta alla coltivazione della rendita e del piccolo orticello, ci vuole uno scatto in avanti nelle politiche pubbliche. E se questo avvenisse proprio a partire dalla cultura, questo avrebbe un significato ancora più pregnante. Sarebbe il segno di un cambio di paradigma culturale.Superare gli interessi particolari, pubblici o privati che siano, e ragionare in un’ottica di interesse generale, non sprecare questa esperienza, non ripartire da zero, insistere su un percorso che è stato interrotto per motivi contingenti e che, come era stato annunciato, doveva proseguire con una fase di confronto sulla base del Rapporto dopo le fasi del dialogo e della stesura del Rapporto. Quella di proseguire nel percorso deliberativo è forse la scelta più difficile ma anche più affascinante per un decisore politico che non voglia battere la strada sicura e tranquillizzante dell’azzerare tutto per ricominciare daccapo.

Bisogna ricostruire il Paese e rinforzare i legami che lo tengono assieme ripartendo dalla visione di interesse generale che ha ispirato il processo deliberativo sul Teatro Valle.Non c’è sempre bisogno di ” rottamare ” tutto, per forza.Forse nel nostro Paese bisogna anche recuperare un’altra nobile arte, oltre a quella del dialogo, la nobile arte di distinguere. Questo servirebbe anche a comprendere meglio fenomeni di innovazione sociale come quello del Teatro Valle Bene Comune e ad elaborare una politica pubblica rigorosa ed esigente con tutti gli attori coinvolti in grado di governare la cd. informalità  urbana e forse accompagnarla verso sponde più responsabili, inclusive e rispettose delle regole. Distingue frequenter suggeriva Sant’Ignazio di Loyola!

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