Il rapporto – mai come in questa sua terza edizione – è quindi fortemente sollecitato per quanto riguarda sia la definizione dello “stato dell’arte” sia la proposta di scenari di sviluppo effettivamente praticabili per l’impresa sociale italiana. Queste esigenze conoscitive alimentano un confronto che, dopo anni di assenza, vede riapparire sulla scena il governo nazionale. Nell’ambito della riforma del terzo settore presentata dall’esecutivo si prevede infatti di agire – e in modo rilevante – sullo statuto dell’impresa sociale, modificandone alcuni aspetti chiave (i settori di attività , la distribuzione degli utili) da cui potrebbe scaturire un nuovo profilo identitario.
Rispetto a queste molteplici sollecitazioni il rapporto sull’impresa sociale fornisce alcune risposte che si possono riassume in forma di ” messaggi ” rivolti, in particolare, al policy maker, non solo nazionale e non solo pubblico. Basti pensare alla partita dei fondi europei per il nuovo periodo di programmazione 2014-2020 che coinvolge, oltre alle istituzioni comunitarie, anche le amministrazioni regionali chiamate ad allocare fondi strutturali che riconoscono (o dovrebbero riconoscere) nell’impresa sociale una priorità d’investimento. E per quanto riguarda i policy maker privati si può ricordare il ruolo di molte fondazioni (bancarie in particolare) che nei loro piani di azione citano il sostegno all’imprenditoria sociale in forma diretta o più spesso riferito ai suoi principali settori di attività (welfare, cultura, ambiente, inclusione, ecc.). Ecco quindi i messaggi che scaturiscono dai dati del rapporto.
Archiviare il passato
Il riferimento è alla legge sull’impresa sociale attualmente in vigore (l. 118/05 e d.lgs n. 155/06) che negli ultimi anni ha sostanzialmente fallito nel fare da ” centro di gravità ” per iniziative – di varia origine e settore di attività – accomunate però dall’esplicita missione di produrre ” in via stabile e continuativa ” beni e servizi di interesse collettivo. Il rapporto, da questo punto di vista, certifica i limiti dell’attuale assetto normativo grazie a un’indagine estensiva sulle organizzazioni che nel corso degli ultimi anni hanno assunto la qualifica di impresa sociale. Quel che si evidenzia non è solo lo scarso numero di unità imprenditoriali (circa 1.300 nel corso di quasi dieci anni), ma anche e soprattutto la quasi assenza di peculiarità per quanto riguarda gli assetti organizzativi e di governance, i processi produttivi e le performance economiche e sociali. Non si segnala infatti la presenza di marcatori tali da riconoscere l’impresa sociale ex lege come una, seppur sparuta, popolazione organizzativa caratterizzata da un profilo identitario comune, non tanto nel substrato culturale ma, appunto, nei modelli di business sociale. Indubbiamente la struttura dei mercati in cui opera la maggior parte di queste imprese si può definire di nuova generazione perché prevale un rapporto diretto con il ” cittadino consumatore ” piuttosto che con un soggetto terzo pagante (spesso rappresentato dall’ente pubblico), ma a questo non fanno seguito livelli di investimento adeguati sia in senso economico che sociale, ad esempio guardando all’innovazione nei modelli di stakeholder engagement.
Ricominciare dal nonprofit
Il ” fabbisogno di riforma ” dell’impresa sociale è visibile non solo guardando agli effetti limitati della norma, ma anche al potenziale rappresentato da organizzazioni che presentano caratteristiche operative e orientamenti strategici tali da porle nell’orbita dell’impresa sociale. Tale potenziale particolarmente è ben visibile tra le organizzazioni nonprofit diverse dalle cooperative sociali; queste ultime infatti si possono considerare imprese sociali ” de facto ” (tanto che nel progetto di riforma si prevede l’attribuzione automatica dello statuto normativo riformato). Il rapporto propone in questo caso un’approfondita analisi sui soggetti non lucrativi ” market oriented ” ovvero che ricavano almeno la metà delle risorse economiche da transazioni di mercato. Una variabile, quest’ultima, che approssima, pur con alcuni limiti, una vocazione in senso imprenditoriale riguardante oltre 82mila organizzazioni con 440mila addetti e 1,6 milioni di volontari presenti in settori relativamente ” nuovi ” per l’impresa sociale fin qui conosciuta, come cultura, sport e ricreazione. Dati che dimostrano come il nonprofit rappresenti ancora un bacino importante di imprenditorialità non intercettato né dalla norma sull’impresa sociale, ma neanche da quella sulla cooperazione sociale vincolata soprattutto in campo socio-assistenziale, educativo, sanitario e per l’inserimento al lavoro di persone svantaggiate.
Rafforzare le startup
Le misure a sostegno della nuova imprenditorialità hanno rappresentato, in epoca recente, un importante elemento di innovazione nelle politiche di sviluppo. Tali misure – riferite alle ” startup ” – si sono concentrate soprattutto sul versante dell’innovazione tecnologica anche nel caso di imprese con una dichiarata ” vocazione sociale ” . In realtà l’imprenditoria sociale, soprattutto quella in forma cooperativa, rappresenta ancora un importante soggetto di creazione d’impresa in ambiti di attività che sono, al tempo stesso, ad elevata intensità di manodopera e in grado di generare un ” impatto sociale positivo ” per persone e comunità locali che beneficiano, a vari livelli, della loro produzione. Il rapporto evidenzia, da una parte, la resilienza delle cooperative sociali nella prima fase della crisi grazie anche all’effervescenza del fenomeno che ha visto la nascita di molte nuove ventures sociali: basti pensare che oltre il 20% delle 13mila cooperative sociali è nato nel biennio 2009-2011. D’altro canto queste stesse startup manifestano una certa fragilità del loro ciclo di sviluppo dovuta non solo al fatto che si tratta di organizzazioni nascenti, ma anche per l’effetto di variabili legate, ad esempio, al contesto territoriale (esiste una sovrarappresentazione di ” startup sociali ” in contesti complessi come le regioni meridionali e insulari) e al protrarsi di una crisi che mette a dura prova il modello di resilienza basato sulla progressiva erosione delle marginalità economiche per mantenere inalterati i livelli di servizio e l’occupazione.
Tornare a investire
La propensione all’investimento rappresenta un’importante variabile per individuare le traiettorie di sviluppo dell’impresa sociale, in particolare per quanto riguarda la possibilità / volontà di aprire un ciclo di vita basato su nuovi modelli di produzione e di scambio di beni di pubblica utilità . Rispetto a questo punto i dati del rapporto mettono in luce una propensione sufficientemente diffusa (soprattutto tra le cooperative sociali), ma ancora a bassa intensità di risorse e scarso orientamento alla scalabilità . Investimenti, quindi, che si può presumere siano finalizzati a innovazioni incrementali piuttosto che ” sistemiche ” . Questa tendenza generale si accompagna a una più puntuale che riguarda i comportamenti dei ” big players ” del settore, le grandi imprese sociali. Si nota, da questo punto di vista, una polarizzazione evidente: poco meno dell’1% delle cooperative sociali concentra quasi il 30% del valore della produzione (pari a 10 miliardi di euro) e circa il 27% del capitale investito (8 miliardi di euro). Un dato importante per declinare policy che sono alla ricerca di ” effetti leva ” puntando più su distretti e reti di PMI sociali o su ” industrie ” dello stesso comparto.
Arricchire l’ecosistema
Lo sviluppo dell’impresa sociale è legato non solo alla disponibilità di risorse economiche, ma al contestuale rafforzamento di un sistema specializzato di risorse in kind. Un sistema articolato di accompagnamento (formazione, consulenza) che fino ad oggi è stato in gran parte ” autoprodotto ” dalle stesse imprese sociali attraverso le loro reti di rappresentanza e coordinamento, ma che oggi può essere arricchito da attori attratti dalla progressiva diffusione e consolidamento del fenomeno. Il rapporto denota, in questo caso, il carattere ancora acerbo di questo ecosistema, guardando, di nuovo, alle strategie delle imprese sociali sul fronte dell’innovazione. Si tratta infatti di azioni che, se intraprese, si muovono nella maggior parte dei casi all’interno del perimetro della singola organizzazione o di reti composte da imprese della stessa natura, non ancora sufficientemente aperte a contributi di soggetti terzi.
Differenziare i modelli
L’impresa sociale fotografata dal rapporto Iris Network vede come protagonista la cooperazione sociale e, in termini più generali, una cultura che fa leva sul welfare mix pubblico-privato a cui corrisponde un milieu culturale che combina la ” cultura societaria ” del nonprofit e quella statalista. Eppure, anche se spesso in forma ancora embrionale, si manifestano in contesti diversi le stesse esigenze di produrre attraverso l’azione imprenditoriale un valore multidimensionale (economico, sociale, ambientale) che sia condiviso da una pluralità di soggetti. Il rapporto propone, in chiave di policy, qualche riscontro empirico e soprattutto alcune piste di lavoro per ulteriori approfondimenti. I riscontri riguardano, ad esempio, la quantificazione delle imprese di capitali che operano nei settori di attività previsti dalla norma sull’impresa sociale. Una misura – oltre 61mila unità – che perimetra un contesto nel quale possono sorgere nuovi modelli di impresa sociale e, al tempo stesso, competitor di queste stesse imprese. Le piste di lavoro corrispondono invece a una mappatura di fenomenologie imprenditoriali che propongono (o ri propongono) un approccio inedito alla produzione di valore sociale. Tra le principali si possono ricordare, oltre alla già citata nuova imprenditoria innovativa, le imprese su base comunitaria per la gestione dei beni comuni; le imprese (e le reti) di economia solidale per organizzare nuove forme di produzione e consumo alle quali si possono affiancare le piattaforme di economia della condivisione (sharing economy); le imprese for profit ” coesive ” che incorporano nel business tradizionale legato soprattutto a eccellenze del made in Italy elementi di innovazione sociale e ambientale; le organizzazioni ibride che implementano nuovi schemi di cooperazione tra stakeholder ridefinendo i legami tra profit e nonprofit. Questa tendenza alla differenziazione dell’imprenditoria sociale è legata non solo al nuovo assetto normativo o alla disponibilità di risorse, ma all’affermarsi di una nuova generazione di imprenditori sociali, diversa da quella che ha fondato questo modello d’impresa – soprattutto per quanto riguarda le matrici culturali di riferimento – ma ugualmente interessata a ” fare la differenza ” . Sarà interessante verificare quanto la spinta al cambiamento (peraltro già in atto) si risolverà all’interno del perimetro attuale dell’impresa sociale – quindi attraverso percorsi di change management – oppure si manifesterà attraverso l’affermarsi di iniziative radicalmente nuove.
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