Generalmente i social network hanno il pregio di saper mettere in relazione persone distanti, ma spesso provocano un allontanamento tra persone vicine. La social street di via Duse ha reso possibile un tipo di società che, grazie ai social network, ha saputo sfruttare la connettività per ricreare una comunità . Per discutere l’evoluzione di questo fenomeno abbiamo deciso di intervistare Michela Bassi, insegnante di inglese e promotrice della social street di via Duse.
Come nasce la social street e secondo quali esigenze?
A gennaio 2014 mi sono trasferita in via Duse. Non conoscevo nessuno e la cosa mi dispiaceva. Si iniziava a sentir parlare delle prime social street, in particolare quella di via Fondazza. L’idea di crearne una anche qui mi piaceva molto, quindi con zero aspettative ho pensato di realizzare un gruppo Facebook e di stampare volantini. All’inizio è stata durissima. Ho dovuto far fronte a molte resistenze e, a volte, anche a degli agguati. Poi ho pensato di coinvolgere i commercianti, chiedendogli di apporre i volantini sulle proprie vetrine. Facendo questo ho dimostrato che quello che proponevo non era per me, ma per tutti. L’iniziativa ha raccolto un bisogno diffuso, quello di sentirsi parte di una comunità . Condividere uno spazio e prendersi cura di una zona pubblica è stata la spinta propulsiva che ha reso possibile la nascita della social street.
Dall’offline all’online, per la risoluzione di problemi condivisi
Come è organizzata la social street e che spazio riservate ai social network?
I momenti di discussione sono offline. Facebook è il posto dove le persone chiedono aiuto concreto ( ” mi presti il trapano ” , ” mi annaffi le piante ” ) e dove vengono segnalati eventi. Abbiamo un appuntamento fisso ogni mese, in cui ci ritroviamo e discutiamo. Per alcune attività , come ad esempio la gestione de La casa di Isabella, uno spazio comunale messo a disposizione dei cittadini, dobbiamo fare autofinanziamento, perché vanno pagate le bollette. Questo è un quartiere che versa in forti difficoltà , quindi cerchiamo di adottare una logica inclusiva, promuovendo attività che non comportino grandi spese per i residenti. Ad esempio, dopo i primi mesi abbiamo spostato gli incontri dal bar alla strada, perché ci eravamo resi conto che i primi non erano accessibili a tutti.
La social street è un modo per attenuare il disagio economico di alcune persone?
Non lo so. Ci sono persone che hanno trovato nelle relazioni scaturite dalla social street parte della soluzione ai propri problemi economici. Penso a persone che, qui, seguono corsi senza pagare il costo di una sede. Oppure, persone che si sono conosciute e che, adesso, lavorano insieme. Più che una forma di sostegno al reddito, si tratta di un benefico incremento delle relazioni sociali, che porta a trovare soluzioni a problemi condivisi.
Uno spazio urbano collettivo: la bacheca di strada
Quali sono le principali azioni poste in essere dalla social street e attraverso quali fasi?
All’inizio tutto era legato al conoscersi e fare due chiacchiere, quindi a rotazione ci incontravamo nei bar aderenti alla social street per un caffè o un aperitivo. Da li è nato il desiderio di fare qualcosa, di impegnarci per la cura degli spazi condivisi e creare una comunità . Nel primo anno abbiamo messo in pratica molte iniziative di guerrilla gardening e cura del verde. Lo spartitraffico di via Duse era buio e frequentato da persone poco raccomandabili. Quindi, la nostra idea iniziale è stata: ” ci andiamo noi, almeno non ci vengono loro ” . Quale miglior forma di sicurezza?
In seguito, con il progetto ” Eleonora si muove ” abbiamo messo in piedi dei laboratori. Da lìsono nate numerose iniziative, che hanno animato la via. Il 21 settembre del 2014 con la Settimana europea della mobilità sostenibile abbiamo chiuso il traffico e i residenti hanno avuto l’opportunità di ripensare la strada a loro piacimento. Quindi hanno ridisegnato strisce pedonali, piantato fioriere e inaugurato la bacheca di strada. La giornata di risistemazione della strada è stata estremamente sentita e gradita, portando ad incontri proficui con i funzionari del Comune. Da quegli incontri abbiamo notato che, quando la comunità si attiva per la proposta di decisioni pubbliche e per il controllo delle stesse, i risultati sono ottimi.
Cos’è la bacheca di strada?
Nell’inverno del 2014 è sorta l’idea di trasformare un pannello pubblicitario in disuso presente nella via in spazio collettivo, per pubblicizzare le attività dei cittadini. Così, abbiamo pensato di stipulare un patto di collaborazione con il Comune. L’iter per l’elaborazione del patto (uno dei primi su cui si stava lavorando) è stato lungo e molto partecipato. Un ingegnere civile della social street ha elaborato il progetto, dando vita ad un’opera di arredo urbano, che è stata finanziata in parte dal Comune e in parte da uno sponsor privato.
Sai dirmi che effetto ha avuto la riappropriazione di uno spazio, nel ristabilire la fiducia tra le persone?
Siamo riusciti nell’intento iniziale. La scelta di portare il baricentro della social street nello spartitraffico centrale è stata vincente. Ha dato risposta all’esigenza silente di avere uno spazio fisico in cui trovarsi. Oggi, quello spazio è affollatissimo ed è diventato un punto d’incontro.
La social street ha contribuito a mettere in relazione individui che avevano difficoltà a stare insieme e ritrovarsi. Questo è un quartiere estremamente eterogeneo: ci sono persone che vengono da tutto il mondo e a volte è difficile confrontarsi. Con le attività promosse dalla social street abbiamo avvicinato soggetti di tutti i tipi e di tutte le provenienze. Devo dire che questa forma d’integrazione ci ha arricchito come persone. Sono nate amicizie e sono migliorate le relazioni tra persone che, altrimenti, non avrebbero avuto nessun rapporto. Adesso vediamo un crescente interesse, che si riflette in una maggiore partecipazione, segno evidente che tutti noi ci stiamo impegnando affinché le cose funzionino.
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