Si sta progressivamente estendendo il numero dei comuni che adottano soluzioni che vanno sotto il nome di “baratto amministrativo”: con questa espressione si comprende una serie di misure con cui i comuni consentono agevolazioni fiscali in cambio di azioni che i cittadini si impegnano a svolgere per la comunità amministrata dall’ente locale che concede il beneficio. C’è al fondo di questa soluzione un’ammaliante tesi: incoraggiare chi si impegna per la collettività con l’illusione pure di trovare legittimazione nell’art. 24, legge n. 133 del 2014 o, addirittura, nei patti di collaborazione che costituiscono l’applicazione del Regolamento sui beni comuni urbani che questa Rivista da tempo sostiene. Questi assiomi, però, non hanno fondamento ed è necessario spiegarne le ragioni.
Il primo aspetto da rilevare riguarda proprio l’adozione impropria del concetto di “baratto”. Il baratto allude a uno scambio tra una prestazione e una controprestazione che, in questo caso, sarebbe amministrativa perché consiste in un’agevolazione che il comune è disposto a concedere. Affinché si possa trattare propriamente di baratto bisogna che si tratti di uno scambio equivalente: ci deve essere, cioè, una proporzione quanto più oggettiva nello scambio. Tutto questo, però, ha ben poco a che vedere con le soluzioni che favoriscono le iniziative sussidiarie dei cittadini che si impegnano per la collettività perché in questi casi, anche quando sono previste agevolazioni fiscali (è il caso dell’art. 24, legge n. 133 del 2014 o del Regolamento sui beni comuni urbani), la logica non è quella dello scambio ma quella della sollecitazione e del sostegno a coloro che si attivano liberamente per la comunità . Non siamo dentro lo schema della corrispettività ma in quello dell’aiuto verso chi è disposto a donare proprie risorse, capacità e tempo per gli altri. Sono due cose profondamente diverse. Il baratto è semplicemente la soluzione alternativa a un prezzo ma comunque corrisponde alla logica economica; il sostegno alle iniziative che – non a caso – entrambi i testi normativi citati definiscono “sussidiarie” è dentro la logica di solidarietà .
La libera scelta del cittadino
Tale incongruenza si aggrava enormemente quando si pretende perfino di applicare il c.d. “baratto amministrativo” alle situazioni in cui il beneficiario è un debitore del fisco locale. In questo caso, infatti, manca del tutto il presupposto della libera scelta del cittadino che è alla base di ogni iniziativa sussidiaria: colui che è in una condizione debitoria è per definizione un obbligato e non un soggetto libero. Certo, il comune propone la scelta tra pagare il tributo o svolgere una determinata azione, ma si resta pur sempre dentro uno schema tra chi è obbligato e chi pretende una certa azione. Tutto ciò somiglia molto più alla corvée medievale che ai rapporti civili di una Repubblica democratica. Senza contare il fatto che questo tipo di soluzioni vengono offerte a coloro che si trovano in difficoltà economica come “sostegno sociale”, dove – appunto – la libertà di scelta del debitore è più apparente che reale.
A tutto questo occorre aggiungere le difficoltà di individuare i beneficiari quando ad agire sia un’associazione: l’agevolazione deve riguardare il soggetto collettivo o i loro membri? E, in questo secondo caso, tutti o i soli rappresentanti? Se si applica ai soli membri, si disincentiva la creazione delle formazioni sociali; se il beneficio ricade solo sull’associazione, è possibile che la corrispettività del beneficio sia sottodimensionata. Ecco, infatti, un altro punto estremamente difficile da verificare: come si commisura la corrispondenza equivalente tra agevolazione fiscale e attività richiesta al beneficiario? C’è un criterio oggettivamente misurabile?
Dubbi sulla legittimità giuridica dei provvedimenti comunali
Ammesso poi che sia anche astrattamente ricavabile un criterio di corrispondenza, bisogna che questo sia definito per legge, secondo quanto disposto dall’art. 23 cost. che sancisce la riserva legale per la pretesa di prestazioni nei confronti dei cittadini. Tale presupposto, però, è del tutto mancante. C’è poi tutto il tema difficile dell’equilibrio tra “perdite” della collettività : l’agevolazione fiscale di per sé costituisce un costo per la collettività perché si consente una diminuzione o, addirittura, un’esenzione dall’obbligo solidale per eccellenza che è quello fiscale, tanto è vero che nel Regolamento dei beni comuni esso costituisce solo uno dei tanti modi con cui l’amministrazione può favorire i cittadini. Se questo si innesta addirittura su un debito fiscale, il costo per la collettività rischia di essere molto grave e non recuperabile dall’azione richiesta nei confronti del debitore fiscale.
Ci sono anche una serie di rilievi giuridici che possono essere sollevati nei confronti di quei comuni che stanno adottando questa soluzione con mere delibere e senza previa emanazione di regolamenti che definiscano le fattispecie concrete in cui applicare queste misure, i soggetti beneficiari, l’individuazione dei tributi coinvolti, la corrispondenza tra azione svolta e tributi agevolati, la differenza tra tributi corrispettivi e le imposte locali. Sono tutti profili che rendono i provvedimenti amministrativi illegittimi e a rischio dunque di annullamento, con le conseguenze gravi che da questo può discendere. Il c.d. “baratto amministrativo” è del tutto incongruente anche con il Regolamento dei beni comuni urbani e quindi potenzialmente illegittimo.
“Baratto amministrativo” VS Amministrazione condivisa
A questo proposito non si può omettere di stigmatizzare anche il comportamento dell’IFEL della Fondazione ANCI che nel giro di appena una settimana, dal 16 ottobre al 22 ottobre, ha diramato due note per stabilire le condizioni di applicazione del “baratto amministrativo”, facendo venire meno nella seconda di queste note tutta una serie di cautele ed avvertenze iniziali per andare nella direzione di ampliare il campo di applicazione: è fin troppo evidente che la Fondazione non ha saputo resistere alle pressioni degli enti locali esponendo gli stessi a gravi ripercussioni.
In conclusione, il “baratto amministrativo”, a tacere di ogni dubbio di legittimità , non ha nulla a che vedere con l’amministrazione condivisa. Si innesta su rapporti giuridici che sono asimmetrici, con una parte che esige e l’altra che è obbligata senza alcun accordo liberamente costituito, non crea fiducia sociale ma solo dipendenza e subalternità . Naturalmente le amministrazioni locali hanno la libertà di decidere come meglio credono, ma è bene avere chiaro il quadro entro cui ci si muove ed è bene evitare confusioni. Il Regolamento dei beni comuni urbani è sorto per costruire un quadro di legalità dentro il quale le esperienze solidali, la cura da parte dei cittadini di beni comuni, l’autonomia civica trovasse sostegno da parte delle amministrazioni locali in una condizione tendenzialmente paritaria. Su questa rivista si è avuto spesso modo di sottolineare che nell’amministrazione condivisa i cittadini costituiscono una risorsa, ma con ciò non si è mai inteso declinarla in termini puramente strumentali da parte della pubblica amministrazione. La risorsa di cui si parla nel Regolamento è una risorsa autonoma e non nella disponibilità dell’ente locale: da quest’ultimo chiede solamente un sostegno perché la sua attivazione è in grado di risolvere problemi che riguardano una comunità a cui lo stesso ente locale non può restare indifferente. Il sostegno (anche ma non solo) fiscale che il Regolamento per i beni comuni è disposto a concedere è orientato alla formazione di capitale sociale, alla fiducia collettiva e alla rigenerazione di processi democratici di partecipazione e risoluzione di problemi di interessi generali. Tutti profili che sono estranei al baratto amministrativo.
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