Costituzione-Regolamento-patti di collaborazione. In questo momento storico questi sono i tre passaggi indispensabili per la realizzazione del principio costituzionale di sussidiarietà dal punto di vista del diritto pubblico, in una scala che va dal massimo di generalità al massimo di specificità, dal massimo di astrattezza al massimo di concretezza.
Spesso abbiamo detto che il principio di sussidiarietà per come è formulato nell’art. 118 ultimo comma della Costituzione vive soltanto se lo fanno vivere i cittadini. La Costituzione dispone infatti che i soggetti pubblici “favoriscono” le autonome iniziative dei cittadini attivi. Ma se questi ultimi non si attivano i soggetti pubblici non hanno nulla da “favorire” e dunque il principio di sussidiarietà, che è un principio essenzialmente relazionale, non si realizza.
Sono i cittadini che, attivandosi autonomamente, fanno vivere la Costituzione e a quel punto le istituzioni intervengono ed entrambi,insieme, combattono contro il nemico comune rappresentato dalla complessità del mondo in cui viviamo, dalla scarsità di risorse, dall’aumento delle richieste, in una parola dall’entropia amministrativa.
Un’analisi dettagliata dei primi quattro articoli
Ma per far vivere la Costituzione ci vogliono degli strumenti adeguati, non basta che ciò che fanno i cittadini attivi sia conforme a Costituzione se poi l’ordinamento valuta negativamente le loro azioni, arrivando addirittura a sanzionarle. E dunque ecco l’esigenza di uno strumento normativo agile, semplice, facilmente modificabile e adattabile alla variegata realtà dei nostri enti locali… il Regolamento per l’amministrazione condivisa, appunto!
Sul Regolamento in generale rinviamo alle numerose analisi e riflessioni pubblicate in questa rivista nel corso degli ultimi due anni, sintetizzate infine recentemente nel Rapporto sull’amministrazione condivisa dei beni comuni.
Proviamo invece ad analizzare in dettaglio i profili giuridici dei primi articoli del Regolamento per arrivare poi in un successivo articolo ad esaminare i patti di collaborazione, lo strumento a disposizione dei cittadini attivi per far vivere la Costituzione nella realtà quotidiana.
Il Regolamento per Roma come testo di riferimento
Prendiamo come testo di riferimento la bozza del Regolamento per Roma alla cui redazione Labsus ha partecipato l’anno scorso nell’ambito di un gruppo di lavoro interassessorile costituito dalla Giunta capitolina nella primavera 2015.
Il motivo di tale scelta sta nel fatto che allo stato attuale esso è probabilmente il testo più aggiornato esistente, per due motivi. Da un lato, esso tiene conto delle modifiche introdotte nel corso di questi ultimi mesi dalle decine di comuni che hanno adottato o stanno adottando il Regolamento, che hanno in vari punti migliorato l’impianto originario del testo redatto da Labsus insieme con il comune di Bologna. Dall’altro lato esso tiene anche conto delle osservazioni, delle critiche e dei suggerimenti che sono stati formulati nel corso dei circa cento incontri pubblici cui Labsus ha partecipato in tutta Italia dal marzo 2014 al dicembre 2015.
Come si realizza l’amministrazione condivisa
L’art. 1 individua innanzitutto le finalità, l’oggetto e l’ambito di applicazione del Regolamento, legittimandolo attraverso il richiamo alle disposizioni costituzionali cui esso dà attuazione. Poi, per la prima volta rispetto a tutti gli altri testi di regolamenti adottati finora, rende esplicito il fatto che “La collaborazione tra cittadini e amministrazione, che si estrinseca attraverso l’adozione di atti amministrativi di natura non autoritativa, realizza l’ amministrazione condivisa”. Gli atti amministrativi in questione sono i patti che all’art. 5, comma 1, sono definiti come “lo strumento con cui il comune e i cittadini attivi concordano tutto ciò che è necessario ai fini della realizzazione degli interventi di cura,rigenerazione e gestione dei beni comuni in forma condivisa”.
In sostanza l’art. 1 non soltanto fa capire fin da subito che il Regolamento è un primo capitolo del Diritto dell’amministrazione condivisa, ma dà anche una definizione (poi ripresa e approfondita all’art. 2) di questo nuovo modello fondato sul principio di sussidiarietà.
Le definizioni per evitare equivoci
L’art. 2, come di regola accade nei testi normativi, contiene le definizioni dei termini che sono usati negli articoli successivi: beni comuni, cittadini attivi, e così via per un totale di undici termini. Non è questo il momento per approfondire l’esame di questo articolo, ma è bene sottolineare che ogni definizione è il frutto di lunghe e approfondite discussioni per conciliare il massimo della sintesi con il massimo della chiarezza circa il contenuto, onde evitare poi equivoci nell’interpretare il resto delle disposizioni del Regolamento.
Da notare che, come si accennava, alla lettera c) di questo articolo si riprende il tema dell’ amministrazione condivisa, definita come “il modello organizzativo che, attuando il principio costituzionale di sussidiarietà orizzontale, consente a cittadini ed amministrazione di condividere su un piano paritario risorse e responsabilità nell’interesse generale”.
Undici nuovi principi per la nuova amministrazione
Anche gli undici principi generali cui si deve ispirare, secondo l’art. 3, la collaborazione fra cittadini e amministrazione, sono il risultato di lunghe discussioni. Possono sembrare astratte enunciazioni di principio, mentre invece sono la griglia teorica al cui interno poi i patti concretamente disciplinano il rapporto di condivisione su un piano paritario di “risorse e responsabilità nell’interesse generale”.
Se il Regolamento non fosse fondato su un paradigma così agli antipodi di quello tradizionale, se non cambiasse così radicalmente il rapporto fra cittadini e amministrazione probabilmente non ci sarebbe stato bisogno di enunciare i principi ispiratori di questo testo normativo perché essi sarebbero stati, implicitamente, quelli stessi cui si è ispirata per 150 anni la nostra amministrazione pubblica nel rapporto con gli amministrati.
Ma il passaggio dal paradigma bipolare a quello sussidiario segna un salto teorico e pratico tale per cui anche i principi (o almeno una parte di essi) devono adeguarsi.
I protagonisti, cioè i cittadini attivi
Arrivati a questo punto il Regolamento ha disciplinato le finalità, l’oggetto, le definizioni, i principi ispiratori…. mancano i protagonisti, i cittadini. E l’art. 4, intitolato “Cittadini attivi”, per prima cosa chiarisce che non servono “ulteriori titoli di legittimazione” per partecipare agli interventi di cura in forma condivisa dei beni comuni urbani (art. 4, comma 1), perché tali interventi sono “concreta manifestazione della partecipazione alla vita della comunità e strumento per il pieno sviluppo della persona umana” e in quanto tali sono “aperti a tutti”.
In questa disposizione è evidente il riferimento all’art. 3, comma 2 della Costituzione.
I padri e le (poche) madri Costituenti, che avevano vissuto sulla loro pelle l’esperienza del totalitarismo fascista, volevano garantire a tutti i lavoratori l’effettiva partecipazione all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese sapendo che se non c’è vera partecipazione non può esserci democrazia. Il Regolamento condivide questa preoccupazione affermando che attraverso la cura dei beni comuni si partecipa concretamente alla vita della comunità, sia essa quella locale o quella nazionale. Comunità è un termine più “caldo”, più coinvolgente di “Paese”. Del resto non a caso Labsus sostiene da tempo che attraverso la cura dei beni comuni si creano o si rafforzano appunto i legami di comunità.
Il principe, il rospo ed i beni comuni, ottobre 2015, sul rapporto fra comunità e beni comuni.
La missione costituzionale della Repubblica
E’ proprio nella definizione degli interventi di cura dei beni comuni come “strumento per il pieno sviluppo della persona umana” che si coglie appieno la radicale novità dell’amministrazione condivisa rispetto alla Costituzione, che dal Regolamento non viene affatto superata, anzi, semmai viene integrata, completata e rafforzata nei suoi principi fondanti, fra cui quello dell’uguaglianza sostanziale.
La Costituzione affida infatti alla Repubblica una missione, quella di “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana…”. E’ un progetto di società fondato da un lato sull’idea che nessuno deve essere lasciato solo, quindi sulla solidarietà, dall’altro sull’idea che una comunità in cui a tutti e tutte è data la possibilità di realizzare i propri progetti, sogni e talenti è una comunità in cui tutti vivono meglio.
Dalla “rimozione degli ostacoli” all’attivazione delle capacitazioni
Tuttavia (né poteva essere diversamente) l’Assemblea costituente ragionava sull’amministrazione all’interno del paradigma bipolare tradizionale e dunque riteneva fosse compito della Repubblica “rimuovere gli ostacoli”, dando vita a quello che è stato chiamato lo Stato sociale. Il Regolamento, che si fonda sul paradigma sussidiario, paritario e pluralista, ragiona invece in termini di attivazione delle capacitazioni di cui sono portatori i cittadini.
Dire che gli interventi di cura dei beni comuni sono “strumento per il pieno sviluppo della persona umana” vuol dire infatti che le persone che partecipano a tali interventi realizzano se stesse mentre partecipano, grazie al fatto stesso che partecipano, mettendo a frutto nella cura dei beni comuni le proprie capacità e quindi crescendo come esseri umani.
Non c’è un prima e un dopo, come nella previsione costituzionale per cui grazie alla rimozione degli ostacoli (per esempio con gli interventi del welfare risarcitorio) le persone possono poi realizzare se stesse, c’è un durante.
Ma c’è anche un’altra cosa, c’è il riconoscimento che la cura dei beni comuni ha una doppia valenza di interesse generale. In primo luogo ovviamente perché tale attività migliora la qualità dei beni comuni di cui tutti possono godere e dunque è utile all’intera collettività. In secondo luogo perché le persone che vi partecipano realizzano se stesse raggiungendo quel pieno sviluppo che la Costituzione affida alla Repubblica come sua missione. E come s’è detto sopra è nell’interesse di tutti che ciascuno membro della comunità nazionale possa realizzare pienamente se stesso.
Tutti vuol dire tutti!
Anche per questo motivo l’art. 4, comma 1 del Regolamento chiarisce che gli interventi di cura dei beni comuni sono “aperti a tutti, senza necessità di ulteriori titoli di legittimazione”. Tutti qui vuol dire tutti, senza eccezioni, quindi anche gli stranieri che risiedono regolarmente nel nostro Paese. Perché la cittadinanza attiva è qualcosa di molto concreto, non dipende da un timbro su un documento, non si è cittadini attivi perché una legge riconosce tale qualifica ma perché si partecipa, insieme con altri cittadini e con l’amministrazione, alla cura dei beni comuni del proprio territorio.
Se dunque stranieri, cittadini di altri Paesi, insieme con cittadini italiani si prendono cura dei beni comuni del luogo dove essi vivono e lavorano, perché mai escluderli dall’applicazione del Regolamento sull’amministrazione condivisa? Se lo fanno, vuol dire che si sentono a pieno titolo cittadini italiani di fatto, anche se non di diritto. Certamente sono più cittadini loro di tanti italiani per nascita che i beni comuni li saccheggiano.
Formazioni sociali, anche informali!
Infine, il comma 2 dell’art. 4, riprendendo l’art. 118 ultimo comma della Costituzione, chiarisce un altro punto importante. La Costituzione prevede che i cittadini possano attivarsi nell’interesse generale come “singoli” o come “associati”. Ma cosa si deve intendere per “associati”? Anche questo aspetto è stato oggetto di lunghe discussioni al momento della redazione del Regolamento per Bologna perché qualunque formula si fosse adottata si correva il rischio di essere parziali. Alla fine si è deciso di ricorrere alla formula dell’art. 2 della Costituzione, disponendo che i cittadini possono prendersi cura dei beni comuni “anche attraverso le formazioni sociali, anche informali, in cui esplicano la propria personalità”.
Qualsiasi formazione sociale può dunque presentare al comune una proposta di collaborazione ai sensi del Regolamento. Non c’è bisogno che si tratti di un’associazione, che abbia uno statuto, una sede, etc.. Può essere anche un comitato che riunisce gli abitanti di una strada o di un condominio, nella massima informalità. Del resto, lo dice anche l’art. 3, lettera i), anche l’informalità è uno dei principi fondanti dell’ amministrazione condivisa!