La sezione Lazio della Corte dei Conti ha ritenuto non fondata la richiesta di risarcimento del Procuratore generale a danno di alcuni dirigenti del comune di Roma per la gestione del patrimonio destinato a uso sociale e culturale.
La sentenza
La sezione laziale della Corte dei Conti è stata chiamata a valutare la richiesta di risarcimento per danno erariale del Procuratore regionale del Lazio sollevata a carico di alcuni dirigenti del comune di Roma operanti dal 1997 in poi a vario titolo nel Dipartimento del patrimonio. Le accuse mosse dal Procuratore regionale muovevano dalla circostanza che un’associazione cittadina godeva l’uso di un bene pubblico comunale in assenza di un titolo concessorio a condizioni molto agevolate, che prevedevano un canone di locazione abbattuto dell’80% rispetto al prezzo di mercato.
I fatti relativi alla vicenda posta all’attenzione dell’autorità giudiziaria risalgono, per la verità , a un periodo ancora più remoto, dal momento che l’associazione godeva sotto forma di occupazione abusiva del bene dal 1983. La contestazione, tuttavia, ha avvio dal 1997, anno in cui il comune di Roma ha disposto un’ordinanza provvisoria di concessione cui sarebbe dovuto seguire il rilascio di un titolo definitivo mai più determinato. Ciò, secondo il Procuratore generale, ha prodotto un grave danno a carico dell’erario pubblico dal momento che il comune, non avendo proceduto alla concessione definitiva, sarebbe dovuto tornare in possesso del bene per destinarlo a una corretta gestione di mercato e, in ogni caso, avrebbe dovuto fino a quel momento esigere l’applicazione del canone pieno da parte dell’associazione che ne godeva il possesso.
Il giudice, tuttavia, non è rimasto persuaso dalle argomentazioni utilizzate dall’accusa. Infatti, tutta la contestazione avanzata dal Procuratore regionale è fondata sul presupposto che è mancato dopo l’ordinanza provvisoria del 1997 l’atto di concessione definitiva, il che però non mette in discussione la motivazione dell’ordinanza provvisoria che aveva riconosciuto il canone agevolato, ammettendo cosìla particolarità dei locali interessati destinati a usi di pubblica utilità sociali e culturali. Ad avviso del giudice, quindi, la condizione del bene coinvolto, bene – cioè – destinato a usi culturali e sociali di interesse generale, non rendeva praticabile la pretesa di una destinazione differente del bene rivolta al libero mercato. D’altra parte – precisa il giudice – l’ordinanza provvisoria è stata emessa sulla base di precedenti regolamenti comunali che favorivano gli usi a fini sociali del patrimonio comunale.
Quanto al rilievo del mancato rilascio del titolo definitivo, il giudice contabile ritiene che, da un lato, sia paradossale che l’inefficienza dell’amministrazione ricada a danno del destinatario incolpevole e, dall’altro, considera comunque applicabile l’art. 20, l.n. 241 del 1990, che prevede l’applicazione del silenzio assenso. Sulla base di queste valutazioni, dunque, la richiesta del Procuratore regionale non è accolta.
Il commento
Per valutare la sentenza in commento vale la pena precisare che il compito della Corte dei conti non è quello di giudicare la legittimità delle scelte o dei comportamenti del comune, ma verificare se dalle scelte o dalle omissioni dell’autorità pubblica sia derivato un danno all’erario pubblico imputabile a dirigenti o funzionari responsabili. Tale precisazione è utile per sottolineare che le motivazioni della sentenza convincono solo in parte perché, nella parte relativa al giudizio delle conseguenze dell’inerzia dell’amministrazione che si riferisce propriamente più alla valutazione della legittimità dell’attività del comune, la conclusione appare discutibile. Infatti, è da mettere in dubbio che nel caso concreto sia da ritenere applicabile il silenzio assenso dal momento che questo richiede la presentazione di un’istanza da parte del beneficiario che non risulta mai essere inoltrata dalla ricostruzione dei fatti.
Di là da questo, invece, appare convincente la parte della sentenza in cui il giudice fa valere la non contestata natura del bene destinato a fini sociali e culturali per resistere a un preteso uso alternativo destinato al libero mercato. Se, in altre parole, un determinato bene è utilizzato a fini generali per ragioni sociali o culturali che il comune riconosce in base anche a precedenti atti regolamentari, non è autorizzata una pretesa alternativa d’uso che prescinda dalla valutazione data al bene contestato. In definitiva, prima di “liberare” il bene per usi alternativi bisogna contestare che il suo uso non sia (o non sia più) destinato a fini sociali.
Cinque sintetiche osservazioni
La prima è che questa sentenza è in grado di proteggere quelle esperienze sociali che originano in condizioni di legalità precaria dove l’iniziale informalità e sostanziale illiceità viene convertita in una condizione di formalità provvisoria o “leggera” che restituisce all’esperienza condizioni di recupero alla legalità . La sentenza, cioè, stabilisce che esistono presupposti per rimettere in connessione esperienze sociali di fatto dentro un quadro di legalità accettabile, sia pure percorrendo vie diverse da quelle tradizionali.
La seconda osservazione concerne l’inidoneità (e inopportunità ) delle autorità giudiziarie di contestare usi alternativi di beni dal momento che questo dipende da una valutazione discrezionale o tecnico-discrezionale che spetta innanzitutto alle autorità amministrative. Se non si dimostra che è la valutazione dell’amministrazione a essere palesemente irragionevole o errata, non può l’autorità giudiziaria pretendere un uso alternativo senza che questo comporti valicare i confini della separazione dei poteri.
In terza considerazione la causa evidenzia il modo discutibile in cui il comune di Roma ha gestito il suo patrimonio. Il fatto che in questo caso non siano state riconosciute responsabilità a carico dei dirigenti non fa venir meno dubbi sulla gestione del patrimonio da parte del comune. La vicenda manifesta una sostanziale inefficienza della macchina amministrativa e la totale inconsapevolezza dell’uso dei beni, che sarebbe stato agevolmente risolto ove si fosse dato fondo in maniera coerente alla natura del bene. L’incertezza che invece si è determinata è stata anche causata da tale ritardo nel riconoscimento pieno e ragionevole della natura del bene e delle finalità che le attività collegate a quel bene garantivano a beneficio collettivo.
In questo senso – e questa è la quarta annotazione – è forse da rimarcare anche l’assenza di un chiaro indirizzo politico che ha stentato a manifestarsi. Questa vicenda e altre collegate ci consegnano un personale politico che fa un uso distorto del principio che si è affermato dagli anni novanta a proposito della separazione tra indirizzo e gestione e così, anziché concentrarsi a svolgere bene e in modo preciso la funzione di indirizzo, interpreta questa separazione come un abbandono e disinteresse per la fase gestionale, preferendo coltivare rapporti in via informale, beneficiando in modo discutibile degli spazi di incertezza giuridica.
Infine, la vicenda ci dimostra anche che se, da un lato, sono possibili percorsi innovativi di conciliazione tra usi sociali e di fatto di beni e quadro di legalità , dall’altro, tale equilibrio è molto precario e rimesso alle valutazioni politiche o alle sensibilità che si registrano dentro le autorità giudiziarie. In realtà anche per Roma, cosìcome è stato per altri centinaia di comuni, esiste una possibilità di inserire queste esperienze dentro un quadro più stabile di regole e più maturo. E’ tempo, dunque, di percorrere la via dell’approvazione del regolamento di collaborazione con i cittadini per la gestione condivisa dei beni comuni urbani, riprendendo un cammino che si è interrotto con la brusca caduta dell’amministrazione Marino.
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