L’innovazione sociale, anche nella sua stagione più recente, insegna: a fare la differenza non è la natura ma la scala delle sfide che si vogliono affrontare e rispetto alle quali misurare la capacità di apportare cambiamenti positivi e duraturi che fondino, o contribuiscano a fondare, un nuovo paradigma. L’esempio del climate change è forse il più emblematico in tal senso: secondo La Lettura del Corriere della Sera, quindi non una testata di catastrofisti o un sito di fake news, la frontiera delle soluzioni non consiste più solo in correttivi, come gli indicatori di sviluppo sostenibile, per riportare il clima sotto controllo, ma in modelli di governo per una situazione ambientale e sociale che comunque è già compromessa. E’ quindi il livello sistemico a fare da asticella all’innovazione e la portata degli effetti generati corrisponde non solo alla massa di coloro che contribuiscono o aderiscono alle nuove soluzioni, ma soprattutto alla capacità di operare in modalità multi-livello: le regole del gioco delle policy, la forma mentis di persone e collettività, il design di beni e servizi e delle organizzazioni che li rendono disponibili.
La conoscenza, da questo punto di vista, occupa una posizione centrale dentro questa “grande trasformazione”.
In primo luogo guardando all’impatto sempre più pervasivo esercitato sui sistemi socioculturali ed economici – ormai da decenni la nostra società viene definita “della conoscenza” – e in secondo luogo perché la conoscenza alimenta la capacità di risposta alle societal challenges: una sfida nelle sfide caratterizzata, anche in questo caso non da ieri, dalla ricerca di una maggiore interconnessione sia tra gli addetti ai lavori (ad esempio tra ricercatori afferenti a discipline scientifiche diverse), sia nei confronti di un più vasto e sempre più differenziato pubblico. L’impressione però è che soprattutto negli ultimi anni si sia creato un disassamento evidente tra i diversi attori coinvolti nei processi conoscitivi, limitando così la capacità di analisi e di risposta alla crescente complessità e urgenza delle sfide. In sintesi: ad un allentamento della coesione del sistema corrisponde una minor capacità di analisi e risposta sistemica.
Ma per quali ragioni la conoscenza è finita “fuori asse” e come è possibile riarticolarla in una nuova filiera?
Un primo elemento di criticità riguarda la value chain della conoscenza che in molti contesti è sempre più caratterizzata da modelli di natura estrattiva volti cioè a concentrare e redistribuire il valore creato a corto raggio. Non si tratta solo degli effetti generati dalla ricerca del massimo profitto da parte di imprese spesso di grandi dimensioni e di carattere multinazionale che trattano la conoscenza come un asset da sfruttare in termini di business, ma anche di politiche pubbliche che investendo su “poli di eccellenza” producono effetti di concentrazione che impoveriscono altre aree, creando così divari territoriali a causa di una redistribuzione iniqua della risorsa conoscenza. Con questo non si vogliono denigrare né i meccanismi di mercato come modalità per trasferire la conoscenza rendendola più applicata, né tantomeno l’intervento pubblico che spesso è all’origine di quella ricerca-base che contribuisce a creare ecosistemi territoriali in grado poi di mettere a valore questa risorsa. Solo che tutto questo non dovrebbe avvenire a discapito di processi che generano, nel loro dipanarsi articolato e incerto, una grande varietà di esternalità, sia positive che negative, che richiedono di essere gestite attraverso una pluralità di approcci non sempre riconducibili al binomio stato-mercato.
Un secondo elemento consiste in una visione di società allineata alle trasformazioni in atto da parte degli “operatori della conoscenza”. Oggetto del contendere non sono questioni metodologiche o dotazioni strumentali ma la capacità, squisitamente culturale, di formulare una proposizione di valore all’altezza delle sfide. Una visione del mondo che, alle volte, appare troppo schematica perché monopolizzata da matrici ideologiche che tendono a rinculare su assetti precedenti piuttosto che a delineare paradigmi emergenti. Il risultato di questa miopia è all’origine non tanto di distorsioni analitiche, ma soprattutto di una incapacità di proposta, lasciando così molti modelli interpretativi e supporti tecnologici poco o scarsamente utilizzati. Lunghe e approfondite analisi ma poche pagine di proposta spesso deludenti in termini di applicabilità e che quindi ingenerano nei fruitori reazioni del tipo: “questo potevo dirlo anch’io” o “cosa me ne faccio?”.
Terzo fattore di disassamento è l’apertura, ma solo in senso unidirezionale, dei processi conoscitivi. A fronte di una crescente disponibilità di dati, competenze ed effort partecipativo che originano intelligenze collettive ricche di elementi esperienziali e aspirazioni applicative, queste ultime rimangono comunque al servizio di processi hard di produzione e gestione della conoscenza, sia in sede di elaborazione che di trasferimento. Si evidenziano in tal senso limiti legati al riconoscimento e alla gestione di ruoli e funzioni di community management che dovrebbero svolgere un’attività d’intermediazione in senso biunivoco tra specialisti e practitioners, così come difficoltà più di tipo organizzativo ad assumere un approccio autenticamente open rispetto ai processi di ricerca e sviluppo da parte di imprese e istituzioni pubbliche. Il mantra dell’innovazione aperta si scontra quindi con elementi di chiusura nel momento in cui “si deve fare sul serio”, ad esempio in sede di prototipazione, di industrializzazione e di tutela dei brevetti. Eppure è ben noto il valore creato dai meccanismi di riproduzione sociale legati alla conoscenza, ad esempio early users in grado di generare riscontri rispetto a bug o possibili nuove forme d’uso. Apporti preziosi e sempre più centrali nella co-costruzione di elementi conoscitivi che richiedono, in forme diverse, di essere adeguatamente “remunerati”.
Gli effetti di questi disassamenti sono molteplici. Alcuni dei quali molto virulenti e ben conosciuti: attacchi alla scienza ufficiale, proliferazione di teorizzazioni fai da te, ambiguità nell’uso dei dati, sfiducia nei sistemi valutativi. Ma, tra gli altri, se ne può individuare un altro, forse ancor più grave guardando al suo impatto di lungo periodo, ossia il senso di compiacimento che, secondo un recente libro di Tyler Cowen, caratterizzerebbe una fascia sempre più ampia di popolazione a causa di una dotazione tecnologica “social” orientata a creare connessioni solo tra simili spiazzando così la voglia di innovare.
Da dove ricominciare quindi?
Forse da una revisione dei percorsi di community building della conoscenza in due direzioni: la prima agendo in senso comunitario sulla indistinta crowd digitale che comunque, come ricordava Leonardo Becchetti in un recente editoriale su Avvenire, “sa fare la rivoluzione” seppur a spese delle competenze codificate e la seconda curando maggiormente la dimensione “bridging” del legame sociale che fonda la comunità scientifica evitando derive autoreferenziali che si prestano a far da bersaglio. Perché la conoscenza ufficiale, ancora oggi, vede tutto troppo “intorno a sé” e le piattaforme digitali, grande promessa dell’intelligenza collettiva, arrancano perché monopolizzate da forme di governo troppo orientate a far proprio il valore piuttosto che a condividerlo investendo quindi sul protagonismo delle comunità che prendono forma al loro interno.
L’impresa sociale, da questo punto di vista, presenta notevoli elementi di interesse seppure ancora poco conosciuti rispetto a questo tema ed è per questa ragione che abbiamo deciso di dedicare proprio al tema della conoscenza l’edizione numero sedici del Workshop sull’impresa sociale che si terrà il prossimo 13 e 14 settembre a Riva del Garda in Trentino.
Il legame tra conoscenza e impresa sociale si può infatti declinare in un duplice senso.
In primo luogo in chiave storico-evolutiva: molto di quello che oggi è “stato dell’arte” in termini di innovazione sociale ad elevato tasso di conoscenza condivisa è rilevabile nella storia di questo modello d’impresa. Un legame tra comunità scientifica e comunità di imprenditori e innovatori sociali che ha anticipato i trend emergenti di “social innovation communities” e che oggi è però chiamato a cambiare il verso del suo percorso generativo: dalla coesione interna alla inter-connessione con nuovi contesti e attori che approcciano l’impresa sociale secondo modalità nuove non sempre riconducibili al “modello originario”.
In secondo luogo l’impresa sociale è anche un possibile soggetto gestore della conoscenza, sia in senso stretto in quanto tra i diversi settori di attività riconosciuti dalla nuova normativa in materia (d.lgs n. 117/17) c’è anche la “ricerca scientifica di particolare interesse sociale”, sia in senso più ampio considerando in tal caso il contributo al governo della produzione di questo particolare bene. Come ricordava infatti la ricercatrice Silvia Sacchetti nel suo intervento di apertura al Colloquio scientifico di Iris Network lo scorso maggio, l’impresa sociale è un agente in grado di tenere insieme aspetti tradizionalmente separati, se non confliggenti, dei processi conoscitivi. Da una parte, infatti, sa assegnare a una conoscenza iper produttiva ma con scarsa visione una mission esplicita e per di più di “interesse generale”. Un contributo fondamentale perché, citando il nuovo volume di Mariana Mazzucato, dotarsi di una missione consente di esplicitare il contenuto di valore che muove politiche, organizzazioni e persone. D’altro canto l’impresa sociale, per la sua natura d’intrapresa, non si sottrae alla dimensione produttiva che caratterizza anche la conoscenza soprattutto nella misura in cui è destinata ad attivare processi di sviluppo. Ed inoltre l’assetto multi-stakeholder potenzialmente più agibile da questo modello d’impresa rispetto ad altri rappresenta, in termini formali, il supporto a processi decisionali che vedono coinvolti diversi attori (individuali e collettivi, privati e pubblici) che decidono intenzionalmente di assumersi il rischio di un investimento comune. In termini più sostanziali invece assetti plurali alimentano quella capacità di dialogo e di confronto ad ampio raggio che, soprattutto quando si tratta il materiale generativo di una conoscenza condivisa (fiducia, dialogo, apprendimento reciproco ecc.) rappresenta un autentico “valore aggiunto”. Un bene comune in definitiva, perché aperto e connesso intorno ad una comunità cooperativa, come peraltro ricordava anche Elinor Ostrom in uno dei suoi ultimi contributi.
Flaviano Zandonai svolge attività di ricerca presso Euricse (European Research Institute on Cooperative and Social Enterprises) ed è segretario di Iris Network, la rete degli istituti di ricerca sull’impresa sociale.
Foto in anteprima di Nicola Bertasi