Un commento al Manifesto sulla sussidiarietà  che mette in evidenza visioni diverse di questo principio

In vista dell’insediamento della prossima legislatura un gruppo di fondazioni coordinato dalla Fondazione per la sussidiarietà ha presentato al mondo politico un "Manifesto" riguardante alcuni temi centrali del rapporto fra istituzioni e società civile, con particolare riferimento alla sussidiarietà.

Una questione di metodo

Il Manifesto pone innanzitutto una questione di metodo su cui non si può non essere d’accordo, come lo è del resto la maggioranza degli italiani, ovvero che “le riforme istituzionali si fanno assieme”. Pertanto se la prossima legislatura sarà davvero una legislatura costituente il suo primo impegno dovrà essere quello di individuare strumenti e procedure che consentano di pervenire a riforme condivise. Ma, aggiungiamo noi, per essere realmente condivise bisognerà che tali riforme siano il risultato di un confronto che non coinvolga soltanto i “soliti noti”, ovvero partiti, sindacati e associazioni di categoria, bensì sia realmente aperto a tutti i soggetti che rappresentano quella cosa indistinta e purtuttavia reale chiamata “società civile”. Se riforme si devono fare, che siano ben più che “bipartisan”, come ora si usa dire. Che siano di tutti o, almeno, di una maggioranza il più ampia possibile. Il Manifesto ritiene poi indispensabile che “la politica affronti il tema della partecipazione dei cittadini, individuando le modalità e gli strumenti più idonei a garantire una reale democraticità, anche all’interno dei partiti” e introducendo “strumenti che consentano una buona politica”. Fra questi, viene giustamente ricordato “il ruolo decisivo che può essere svolto dai regolamenti parlamentari, i quali determinano la concreta configurazione della forma di governo in modo più sotterraneo ma assai più penetrante delle stesse previsioni costituzionali”.

Un “federalismo differenziato”?

Per quanto riguarda la sussidiarietà verticale, da un lato si chiede alla politica di pervenire ad “una chiara ridefinizione della potestà legislativa tra i diversi livelli di governo”, dall’altro di attuare “un reale federalismo fiscale, un federalismo differenziato nel quale chi è in grado di reggersi sulle proprie gambe possa andare da solo mentre chi è più indietro possa essere aiutato a crescere”. Mentre la prima proposta rientra nel tema più generale della modifica del Titolo V della Costituzione, la cui attuale formulazione ha complicato oltremisura i rapporti fra i diversi livelli di governo, la seconda proposta suscita svariati dubbi, perché non è affatto chiaro come si debba concretamente realizzare questo “federalismo differenziato”. Per esempio, quali sono i settori in cui alcune regioni andranno avanti “da sole”? E poi “da sole” rispetto a chi? Alle altre regioni? Allo Stato italiano? E come si “aiutano a crescere” le aree del paese che sono “più indietro”? In un paese come il nostro, con una debole identità nazionale ed una forte tendenza al localismo, il federalismo differenziato così inteso rischia di far esplodere egoismi di ogni genere. Inoltre in un mondo globalizzato, in cui la competizione si gioca fra “sistemi paese” se non addirittura fra “sistemi continente”, è realistico pensare che alcune nostre regioni possano “andare da sole”?

Sussidiarietà come libertà di scelta

Ma dal punto di vista di Labsus il tema centrale è indubbiamente quello affrontato al punto 4 del Manifesto, dove si afferma che “Sussidiarietà è un altro nome della libertà e presuppone una concezione positiva dell’uomo”. Sono entrambe affermazioni condivisibili, ma entrambe possono essere lette in modo da farne risaltare profili diversi o comunque ulteriori rispetto a quelli cui sembrano far riferimento gli estensori del Manifesto. E’ senz’altro vero che la sussidiarietà è una nuova forma di libertà, ma a quale libertà si riferisce il Manifesto? Viene spiegato poco dopo, affermando che applicare la sussidiarietà “significa rafforzare il ruolo dello Stato … come regolatore e controllore e contestualmente introdurre strumenti di libertà di scelta, per favorire la crescita sia in campo economico sia nel settore del welfare (ne siano d’esempio l’istituto del 5 per mille o l’introduzione di sistemi di libertà di scelta per le famiglie nei servizi di welfare …)”. La sussidiarietà come libertà di scelta, dunque, accompagnata da una contestuale ridefinizione del ruolo dei soggetti pubblici, da erogatori (diretti o indiretti) di servizi a regolatori e controllori dei servizi offerti da soggetti privati, sia for profit sia non profit. Secondo questa interpretazione della sussidiarietà essa equivale ad una nuova forma di libertà perché per esempio consente agli utenti dei servizi di welfare di scegliere fra offerte diverse in materia di istruzione, assistenza sanitaria, assistenza agli anziani, e simili. Oppure perché consente ai contribuenti di scegliere a chi destinare una parte del prelievo fiscale operato sui loro redditi, sostenendo con il 5 per mille soggetti del terzo settore e del volontariato che ritengano meritevoli di fiducia. Se si intende la libertà come libertà di scelta, secondo il Manifesto la sussidiarietà coincide con questa libertà. Ne consegue inevitabilmente un diverso ruolo dello Stato: da attore a regolatore, da erogatore a controllore.

Sussidiarietà come libertà solidale e responsabile

Si può concordare sulla necessità di ridurre il peso delle burocrazie pubbliche non solo nel settore del welfare ma anche in altri settori, dove inefficienza e clientelismo inghiottono buona parte delle risorse prelevate dai contribuenti in cambio di servizi spesso scadenti. Ma dire che “la sussidiarietà è un altro nome della libertà” e poi ridurre questa nuova forma di libertà alla possibilità di scegliere fra diversi servizi significa non cogliere le enormi potenzialità di cambiamento contenute in questo antico eppure modernissimo principio. Può darsi infatti che nel principio di sussidiarietà rientri anche l’accezione indicata dal Manifesto. Del resto, il principio di sussidiarietà è da sempre un principio “ambiguo”, che si presta a differenti interpretazioni e di cui nessuno ha il potere di dare l’interpretazione autentica. Ma proprio per questo, proprio perché non sono possibili interpretazioni “autentiche”, bisognerebbe cercare di darne interpretazioni il più possibile feconde di soluzioni per il governo di società complesse come le nostre e non limitarsi ad utilizzare questo principio soltanto per ridurre gli spazi occupati da uno Stato percepito (spesso a ragione) più come ingombro che come sostegno. Ecco perché noi pensiamo che si debba essere più ambiziosi e riconoscere che la libertà di cui la sussidiarietà è il nuovo nome è una libertà più grande di quella che consiste nello scegliere fra diversi servizi. Una libertà solidale, responsabile, attiva, rivolta a soddisfare concrete esigenze del vivere quotidiano, ma non da soli e non da utenti di servizi, bensì da cittadini attivi.

Una "concezione positiva dell’uomo"

La sussidiarietà come la intendiamo noi presuppone anch’essa, come il Manifesto delle fondazioni, una “concezione positiva dell’uomo”. Tanto positiva, da farci credere che sia possibile che cittadini singoli e associati si mobilitino per prendersi cura dei beni comuni insieme con amministrazioni e imprese. Che non sia un’utopia lo dimostrano i numerosi e variegati casi di applicazione del principio di sussidiarietà riportati nel nostro sito. Ormai è una realtà concreta, diffusa da nord a sud, nelle grandi città come nei borghi, ovunque ci siano cittadini che mettono a disposizione tempo, competenze, reti di relazioni, esperienze per prendersi cura dei beni comuni presenti sul proprio territorio. Questi cittadini attivi sono e si sentono liberi. Ma non tanto perché gli viene consentito di scegliere fra diversi fornitori di servizi, quanto perché in piena autonomia scelgono di impegnarsi per la comunità, prendendosi cura dei beni di quella comunità, con le modalità spiegate nella Carta della sussidiarietà.