Sussidiarietà  ed economia

Le ragioni che escludono le relazioni economiche dal raggio di azione delle regole di sussidiarietà  sono confutabili

Parte dei commentatori già nega questa presunta preclusione. Chi legge la sussidiarietà come un criterio di demarcazione tra regole pubblicistiche e regole private, ritiene che proprio la sussidiarietà favorisca le privatizzazioni e le liberalizzazioni e quindi avvantaggerebbe le imprese private.

Questa tesi non appare condivisibile, tuttavia, perché è proprio della sussidiarietà, invece, disegnare relazioni in cui le amministrazioni collaborano con i cittadini, li ‘sussidiano’ per l’appunto nel senso di sostenerli. Questa accezione negativa della sussidiarietà può valere solo nel caso in cui si è in presenza di attività svolte dai privati: in queste ipotesi le amministrazioni possono riappropriarsi delle attività solo eccezionalmente. In tutti gli altri casi la sussidiarietà si declina prevalentemente in senso positivo.

Altri, partendo dal presupposto che la sussidiarietà trovi applicazione soprattutto nei servizi sociali rivolti alla persona, ritengono che la sussidiarietà porti con sé un sistema di regole che agevola gli affidamenti pregiudiziali alle associazioni del terzo settore in deroga alle regole di concorrenza. Questa lettura apparentemente non avrebbe alcun collegamento con il tema delle imprese e dei rapporti economici, ma così non è.

Infatti, quando ci si confronta con questi temi è necessario misurare la compatibilità di queste soluzioni con il diritto comunitario che, a partire dagli anni novanta dello scorso secolo, si è sempre più occupato dei servizi di interesse generale. L’orientamento del diritto comunitario è quello di estendere fin dove possibile le regole di concorrenza, ammettendo una loro limitazione solo in segmenti di mercato nei quali appaiono prevalenti gli elementi di solidarietà sociale. Benché questi confini non siano facilmente delineabili in astratto, si può dire con certezza che l’area sottratta alla concorrenza nei servizi sociali è nell’ordinamento comunitario molto più ristretta di quella garantita generalmente dall’ordinamento nazionale. Sicché neanche questa tesi basta a confutare che la sussidiarietà sia indipendente dalle attività economiche, giacché non tutto quello che si considera nel nostro paese ‘sociale’ è fuori dal ‘mercato’ come ricostruito in ambito comunitario.

Si obietta che l’articolo 118, comma 4, della Costituzione riferendosi esclusivamente ai cittadini non prende in considerazione le imprese. Ma anche questo appare un ostacolo facilmente superabile.

In primo luogo, quel ‘cittadini’ sottintende una forma di cittadinanza che è diversa da quella politica: è proprio la qualità del loro ‘essere attivi’ che legittima la qualificazione di ‘cittadini’. In altri termini la parola esprime un contenuto qualitativo innovativo dell’essere cittadini che è dato dalla prova di appartenenza a una comunità nel momento in cui si interessa dei beni comuni.

Peraltro, non è il primo caso in cui nella costituzione si trova l’espressione ‘cittadini’ senza che questo implichi una limitazione alla sola ‘cittadinanza politica’ (si pensi, ad esempio, al diritto di associazione che non è certo limitato ai soli cittadini italiani nonostante la lettera dell’articolo 18 della Costituzione).

Oltretutto, a ben vedere, la circostanza che l’articolo 118 si riferisca a persone fisiche appare coerente con l’impostazione personalistica della nostra Costituzione, ma anche del codice civile che ricostruisce la disciplina dell’impresa intorno alla figura dell’imprenditore (articolo 282 codice civile).

Ma, soprattutto, se la ratio della sussidiarietà è favorire le azioni svolte da soggetti diversi dalla Repubblica che curano attività di interesse generale perché queste appaiono contigue con le responsabilità dei pubblici poteri, non è comprensibile il motivo per cui le imprese debbano essere escluse quando si fanno promotrici di queste attività: se soddisfano interessi generali anche loro compiono quella fattispecie da cui l’articolo 118 della Costituzione fa derivare l’obbligo di favor a carico delle amministrazioni pubbliche.

D’altra parte argomentare che le imprese private perseguono esclusivamente interessi privati è espressione di un pregiudizio: esattamente come i cittadini, anche le imprese possono decidere in certi campi di prendersi cura di interessi generali senza che questo modifichi la loro natura.

Ne discende così che la sussidiarietà può essere impiegata anche nelle attività di natura economica che abbiano riflessi di interesse generali. Arrivati a questo punto, però, occorre di nuovo misurarsi con quella che la dottrina giuridica ha chiamato la ‘costituzione economica europea’ che è sostanzialmente volta ad affermare le regole di concorrenza.

Già in occasione di un altro editoriale si è avuto modo di specificare che le regole della sussidiarietà applicate ai rapporti economici sono diverse da quelle della concorrenza per molteplici motivi. Questa considerazione è significativa perché se fosse vero che l’ordinamento comunitario preveda la concorrenza del mercato come unico sistema di regole per i rapporti economici, dovremmo concludere che, ancorché la sussidiarietà orizzontale possa applicarsi astrattamente nei rapporti economici, ciò non sarebbe consentito perché in contrasto con le regole comunitarie.

In verità a un migliore approfondimento si può perlomeno ritenere che le regole di concorrenza non sono le uniche possibili. In parte, questo si è già detto sopra a proposito dei servizi sociali: benché l’area sottratta al mercato sia molto ristretta, questo spazio ‘libero dal mercato’ esiste. Inoltre la Comunità europea circoscrive le attività di interesse economico alle attività diverse dalle funzioni, rispetto alle quali il mercato non opera mentre la sussidiarietà sì. L’ordinamento comunitario, inoltre, considera il ‘dialogo sociale’, l’apertura al confronto e alle condivisioni delle scelte di interesse generale, come un sistema di governo prediletto, dal quale le imprese non sono affatto escluse. La cooperazione con le imprese presuppone un sistema di regole diverso dalla concorrenza, evidentemente.

Ma si può dire, soprattutto, che la concorrenza non è il fine dell’ordinamento comunitario: l’articolo 2 del Trattato comunitario di Roma individua i valori e gli obiettivi dell’ordinamento comunitario, nei quali non è compreso il mercato concorrenziale. Il mercato concorrenziale è, viceversa, considerato lo strumento ordinario con cui è possibile raggiungere quegli obiettivi, ma – in quanto strumento sia pure significativo – si considera valido fin quando gli obiettivi per i quali è predisposto sono effettivamente raggiunti; se così non è, si utilizzano altri mezzi. Tutto questo ci dice che le regole di concorrenza non sono le uniche che l’ordinamento comunitario prende in considerazione.

Ciò apre uno spazio per l’applicazione di regole diverse dalla concorrenza nei rapporti economici. Tra queste l’ordinamento comunitario non ricomprende però la sussidiarietà orizzontale; eppure, alcune decisioni della commissione europea, che in questa rivista sono state commentate, potrebbero suggerire alcuni accostamenti che sono suscettibili di ulteriori approfondimenti. Se si potesse dimostrare questo, si potrebbe dire non soltanto che la sussidiarietà orizzontale trova applicazione nei rapporti economici ma che perfino ciò non contrasta con l’ordinamento comunitario.

È uno dei tanti filoni affascinanti di ricerca che la sussidiarietà orizzontale stimola.