In realtà gli esperimenti in corso (bilanci partecipativi come a Porto Alegre, sondaggi deliberativi in Usa e Inghilterra, comitati di cittadini in Germania e Spagna, conferenze per il consenso in Danimarca e Francia, ecc.) stanno già definendo altri equilibri di sistema. In Italia alcune leggi assumono stabilmente queste presenze civiche: ad esempio cinque regioni hanno istituito Audit civici per il controllo della sanità, e la Toscana ha una legge generale sulla partecipazione dei cittadini alle politiche regionali e locali. La integrazione sistematica delle istituzioni rappresentative con forme partecipative non consultive, ma dirette a intervenire in modo penetrante nelle varie fasi del farsi delle politiche pubbliche (dall’agenda, alla progettazione, alla implementazione e infine alla valutazione) autorizza a parlare di democrazia mista.
Oltre l’aritmetica
Fin dai primi decenni del secolo scorso era chiaro che le democrazie parlamentari avessero bisogno di temperamenti e correttivi. Uno dei più grandi giuristi del tempo, Hans Kelsen, nel 1929 indicava nel referendum, anche consultivo, lo strumento di correzione più idoneo. Tuttavia la integrazione referendaria dei sistemi rappresentativi non cambiava e non cambia il baricentro di quei sistemi: con decisione popolare diretta o con decisione delegata a rappresentanze istituzionali, i cardini del sistema erano sempre suffragio universale e regola di maggioranza.
L’inserimento attuale di esperimenti partecipativi corrisponde al significato più ampio di democrazia deliberativa nella cultura anglosassone, che non comprende solo atti decisionali veri e propri, ma considera rilevante tutto il percorso di dibattito in cui si forma opinione pubblica. E tuttavia limitarsi a sottolineare questo ancora non aiuta a capire quello che più nel profondo sta avvenendo. Perché con il tipo di integrazione, realizzabile da semplici forme di cittadinanza attiva, si va oltre il fondamento politico maggioritario, che presiede alla legittimazione delle rappresentanze e al funzionamento delle loro assemblee o dei referendum.
Gli anticorpi di Tocqueville
Le presenze civiche, che si stanno legittimando, non rappresentano “la generalità” dei cittadini, sono solo se stesse. Minoranze. Riconosciute come tali (l’art. 118, comma 4, della Costituzione italiana dice: anche i singoli!).
Fingere che tale riconoscimento derivi dal fatto che esse siano “rappresentative” di altri cittadini è un espediente mentale, per non sganciarsi dall’idea che ha costruito la modernità, e cioè la finzione di rappresentanza. Ma è altro il titolo per cui presenze e ruoli di quel tipo sono ora riconosciuti e legittimati. Essi derivano il loro potere dal fatto che si mostrano concretamente capaci di realizzare l’interesse generale. E’ la attività effettivamente realizzata in questa direzione, che fa scaturire a carico delle istituzioni l’obbligo di accoglimento (“favore” dice la Carta): e cioè dare sostegno e prolungarne i risultati. Il potere sussidiario dal basso dei gruppi di cittadinanza attiva, e la loro autonoma iniziativa, operano in questo senso come “anticorpi” alle derive maggioritarie delle democrazie. Quel che fin dalle origini Tocqueville paventava, è effettivamente avvenuto, ma sembra che in molti posti si stiano trovando correttivi “di sistema”, attraverso complesse e difficili esperienze partecipative, che diremmo per prova ed errore. Proporrei di chiamare le nuove forme di cittadinanza attiva “anticorpi tocquevilliani”, in omaggio a chi per primo colse nell’autonoma capacità di iniziativa dei cittadini il tratto più straordinario delle democrazie in formazione.
Far vivere la Costituzione
Vorrei insistere ancora un momento sul perché è giusto asserire che si stiano formando sistemi di democrazia mista. Si affiancano e si integrano infatti forme rappresentative basate sul principio maggioritario, e iniziative civiche autonome, che non debbono esibire alcun titolo di rappresentanza ma sono legittimate dall’aver fatto propri obiettivi di interesse generale, che le costituzioni democratiche hanno indicato fin dal cuore del secolo scorso, ma che nelle difficoltà della globalizzazione sempre più di sovente le maggioranze politiche trascurano. Parlando di democrazia mista, si asserisce che il baricentro del sistema non è nella volontà politica della maggioranza dei votanti. E questo va tanto più affermato, quanto più evidenti sono le tendenze a restringere il senso della democrazia all’accertamento dei rapporti di forza. Il baricentro invece, finalmente si può dire con riferimenti pratici significativi, è dato dalla costituzione vivente, cioè dal patto ma anche dalla sfida permanente di attuazione tra maggioranza e minoranze. Quel che il costituzionalismo democratico indicava da tempo, sta trovando ora maggiore possibilità di realizzazione pratica, perché messo sui piedi di attori nuovi, che producono preservano e tutelano beni comuni. Questo modo di intendere il ruolo della cittadinanza attiva – attore legittimo e autonomo, se e in quanto soggetto di attuazione dei beni comuni costituzionalmente indicati – schiera tali forze infatti, ancorché di minoranza, accanto a quella parte della cultura giuridico-politica e della magistratura, che lotta per lo sviluppo secondo costituzione.
Mista perchè…
Democrazia mista per questo: non si arrende, dopo il voto, al potere maggioritario e non passivizza tutte la forze sociali insieme, quelle che sostengono il governo e quelle di opposizione, condannate tutte ad attendere decisioni e attività esecutive delegate ad apparati sempre più carichi e inefficienti. Democrazia mista, perché combina delega e attività diretta e non delegata, poteri rappresentativi e poteri sussidiari autonomi, maggioranze silenziose e minoranze attive. Rapporti nuovi e modalità nuove nelle relazioni cittadini-istituzioni sono in cammino: si pensi, per capire quanto grande sia la trasformazione in corso, al fatto che molte funzioni di controllo si spostano fuori dalle assemblee, ricadono su cittadini, e le assemblee stesse devono ridefinire i ruoli tanto di maggioranze che di minoranze assembleari.