D’altro canto, proseguiva la stessa notizia, si assiste a una crescita delle forme di autorganizzazione delle famiglie per rispondere a un bisogno di cura e assistenza dei propri figli dando vita a quelle stesse organizzazioni che qualche riga sopra erano neanche troppo velatamente accusate di “privatizzare il welfare”.
Per capire “dove sta la verità” è necessario ricostruire il percorso storico – evolutivo che ha condotto ad una divaricazione così netta delle valutazioni e delle prese di posizione. Da un lato, infatti, l’impresa sociale è da più parti riconosciuta come una variabile sempre più rilevante nel determinare la qualità della vita delle persone e delle comunità locali. Queste imprese, infatti, producono beni di utilità collettiva che rispondono a bisogni cruciali di educazione, cura, inclusione, coesione sociale, ecc.
Dall’altro lato la loro rappresentazione risulta limitata, come dimostra la frammentarietà dei dati a disposizione, e in alcuni casi addirittura distorta. Ecco quindi che imprese a cui anche la normativa riconosce una missione di “interesse generale” vengono spesso trattate come strumenti per la produzione di servizi sociali low cost finanziati attraverso l’outsourcing della pubblica amministrazione. Le cause di questa situazione sono molteplici e chiamano in causa diversi soggetti, non ultimi anche le stesse imprese sociali. Molte di esse, infatti, avvallano attraverso le loro scelte strategiche e operative i contenuti di questa rappresentazione, ad esempio partecipando a gare d’appalto pubbliche che assegnano poca o nulla rilevanza agli elementi di qualità del servizio e puntano esclusivamente sul risparmio economico.
Il valore aggiunto dell’impresa sociale
Mai come in questa fase è dunque necessaria un’azione di policy, sia da parte degli attori pubblici che delle organizzazioni di rappresentanza del settore, per cercare di governare in senso qualitativo lo sviluppo dell’imprenditoria sociale. Si tratta infatti di un fenomeno che vede l’Italia in posizione di leadership a livello internazionale, ma che proprio al culmine del suo processo di institution building rischia di veder dissolti alcuni importanti elementi di legittimazione sostanziale riconducibili ai legami tra queste imprese e le proprie comunità di riferimento. La sfida dello sviluppo consiste, in altri termini, nel dar vita e nel gestire organizzazioni di impresa sociale che, in coerenza con la propria mission, sono in grado di cogliere in maniera tempestiva i bisogni, prima ancora di una esplicita “domanda”, e allo stesso tempo sanno riconoscere ed attrarre risorse che possono risultare importanti, accanto alle tradizionali transazioni di mercato, come donazioni, volontariato, ecc. Si tratta di un vero e proprio “valore aggiunto”, frutto di un modello imprenditoriale specifico che è difficilmente imitabile da altre soggettività (pubbliche e private).
Una governance aperta
La questione della governance assume, in quest’ottica, una rilevanza particolare perché più che sul singolo processo produttivo, è a livello di orientamento strategico che si definisce ciò che è di “interesse generale”. Questo obiettivo richiede di adottare un sistema di gestione del potere capace non solo di dar voce a diversi stakeholders (utenti dei servizi, lavoratori, esponenti istituzionali, finanziatori, ecc. in tutte le loro possibili “ibridazioni”), ma di coalizzarli affinché sappiano assumersi ruolo e responsabilità in vista di obiettivi comuni, operando all’interno di un contesto organizzativo di cui conoscono opportunità e vincoli. Un sistema di governance aperto al contributo dei portatori di interesse non è solo il luogo dove si presidiano degli elementi identitari – valori e cultura – dell’impresa, ma dove si gioca un ruolo fondamentale anche rispetto alla dimensione più strettamente imprenditoriale. Ad esempio può favorire il consolidarsi di legami fiduciari attraverso cui transitano importanti risorse ed inoltre stimolare una logica di change management a tutti i livelli dell’organizzazione attraverso un articolato sistema di feedback che investe la qualità dei servizi, le motivazioni dei lavoratori e dei volontari, gli orientamenti dei finanziatori, il sentiment del contesto sociale, ecc.
Una rete di relazioni
Su questo fronte la normativa che ha recentemente riformato l’istituto dell’impresa sociale è mancata di coraggio. Allo slancio della legge delega (n. 118/5) dove si parlava di vere e proprie “forme di partecipazione anche per i diversi prestatori d’opera e per i destinatari delle attività” ha fatto seguito un’indicazione più blanda in sede di decreto attuativo (n. 155/6), in quanto per coinvolgimento si intende qualsiasi meccanismo di tipo consultivo, informativo o partecipativo. Va ricordato comunque che la definizione del modello deriva non solo dal riconoscimento astratto della normativa, ma da pratiche gestionali che, sedimentandosi nel tempo, costituiscono un humus culturale condiviso se non dalla totalità, almeno da una consistente popolazione di imprese. In questo senso le osservazioni più recenti dimostrano che, accanto alla presenza di modelli basati sul riconoscimento dei diritti di proprietà a vari portatori di interesse, ve ne sono altri che privilegiano la formalizzazione delle relazioni attraverso strumenti diversi come convenzioni, protocolli, partnership progettuali, associazioni temporanee d’impresa, ecc. Queste forme che non prevedono la partecipazione societaria rappresentano una soluzione emergente e sempre più diffusa per coinvolgere soggetti diversi nell’impresa sociale. Si tratta infatti di modalità non eccessivamente vincolanti per le parti in causa, oltre ad essere più flessibili e più direttamente orientate al raggiungimento di obiettivi puntuali rispetto alla modalità tradizionale di attribuzione di diritti di proprietà. Inoltre tali relazioni coinvolgono sempre più soggetti organizzativi (associazioni, imprese, enti pubblici), piuttosto che singole persone, delineando così assetti di governance dai forti accenti istituzionali.
Imprese per la comunità
Un ambito nel quale le questioni appena descritte possono trovare concreta possibilità di attuazione consiste nelle forme di gestione di asset fisici comunitari (beni immobili, proprietà terriere, ecc.). Molte imprese sociali si stanno cimentando nella ristrutturazione e nell’individuazione di inedite modalità d’uso per strutture già destinate a finalità di interesse collettivo o che possono essere riconvertite a tal fine. La casistica è molto ampia: si va dai conventi che diventano centri per il turismo sociale, fino alle proprietà agricole confiscate a organizzazioni mafiose e che vengono destinate ad attività per l’inserimento al lavoro di persone svantaggiate. Tutte queste iniziative meriterebbero di essere attentamente studiate e valutate perché rappresentano un importante banco di prova per riconoscere la reale vocazione sociale di queste imprese. Le competenze richieste per operare in questo settore investono infatti non solo la sfera del project management e financing, ma richiedono anche specifiche capacità di promuovere e gestire processi che infrastrutturano la socialità secondo una logica autenticamente sussidiaria. Su temi come questi potrebbero intervenire le politiche pubbliche, così come ha fatto di recente il governo inglese che ha investito oltre 3 milioni di euro per il recupero di “community asset” da parte di imprese sociali. Forse sarebbe una soluzione migliore, piuttosto che continuare ad invocare, come si sta facendo in Italia, incentivi tributari e fiscali a favore delle imprese sociali che si basano però su attribuzioni formali spesso esposte a comportamenti opportunistici anche a causa di inadeguati sistemi di controllo.