Così ragionando, dovrebbero emergere anche le potenzialità applicative e i limiti, con riferimento all’ordinamento giuridico italiano, di teorie che stanno influenzando, da anni, il dibattito politico e giuridico internazionale.
L’Italia e la ‘cultura’ deliberativa
La cultura della democrazia deliberativa è giunta solo di recente in Italia. Questo ritardo non è dovuto a provincialismo o a pigrizia intellettuale ma alla profonda distanza esistente tra la nostra cultura politico-istituzionale e quella/e in cui la democrazia deliberativa si è sviluppata. Uso il termine ‘cultura’ per indicare non solo l’approccio di un certo tipo di teorie d’oltreoceano, proprie del mondo nordamericano, ai problemi della democrazia contemporanea, ma più ampiamente una concezione della democrazia e delle sue prassi istituzionali, poggiante su due requisiti: il carattere deliberativo dei processi decisionali e la loro massima inclusività.
Per afferrare meglio il rapporto tra noi e la democrazia deliberativa, mi pare di rilievo la parte critica di tale cultura. Il suo aspetto destruens è infatti costituito dalla svalutazione delle forme di creazione del consenso proprie della democrazia rappresentativa: voto e negoziazione. Le ragioni della critica sono evidenti laddove si rifletta sulla circostanza che queste tecniche decisionali, prese in sé, non favoriscono, o addirittura escludono del tutto, quel processo di ‘scambio di informazione e di argomenti confortati da ragioni’ che contrassegna invece il processo deliberativo. Al termine del quale il partecipante, se si convince della maggiore consistenza delle ragioni altrui, è disposto a cambiare opinione.
Questa sintesi brutale della teoria deliberativa mi permette di evidenziarne un tratto fondamentale: essa nasce dalle ceneri dei partiti del Novecento. A voler usare una prospettiva meno europea, possiamo anche dire che è evidente la sua provenienza da una cultura istituzionale in cui i partiti hanno un ruolo molto diverso da quello che essi hanno svolto in Europa. Nell’assenza di esiziali contrapposizioni ideologiche i partiti della cultura deliberativa hanno in comune il rispetto profondo di valori fondamentali, delle regole formali del processo decisionale, degli organi rappresentativi e di garanzia. Se così non fosse, non si spiegherebbe la pretesa del carattere deliberativo della decisione pubblica.
È in questa differenza di culture politiche e istituzionali che va probabilmente cercata la ragione del tardivo interesse dell’Italia per la democrazia deliberativa.
Zeitgeist e democrazia deliberativa
Senza questa premessa, l’intero dibattito sulla democrazia deliberativa rischia di non essere pienamente compreso da chi, fino a qualche anno fa, ha ragionato sempre e su tutto in maniera ideologica, aiutato in ciò dal ruolo di ‘facilitatore’ del partito politico di riferimento. Le teorie della democrazia deliberativa, infatti, non propongono un’ideologia politica ben caratterizzata, non sostengono, apparentemente, valori sostanziali, se non in forma estremamente limitata (l’eguaglianza dei partecipanti alla deliberazione), limitandosi piuttosto a sottolineare il ruolo di alcuni principi formali del processo democratico.
Ad uno sguardo europeo, smaliziato e disincantato, gli stessi requisiti della democrazia deliberativa potrebbero apparire, addirittura, in un rapporto di intrinseca contraddizione: come garantire la massima partecipazione e, allo stesso tempo, la natura deliberativa del processo democratico? Sappiamo tutti che, in genere, più si accentua il lato partecipativo, più si svaluta la natura deliberativa della decisione. E sappiamo ancor meglio che le condizioni dell’antica democrazia ateniese non si danno in Stati che contano svariate decine (o centinaia) di milioni di cittadini.
Per evitare di cadere nell’errore di bollare come ingenuo un insieme teorico che sempre più riceve attenzione da parte degli studiosi, trovando altresì applicazioni concrete, è bene provare a fissare alcuni punti fermi, che aiutino a meglio inquadrare obiettivi e pretese della democrazia deliberativa.
In primo luogo la democrazia deliberativa non aspira a porsi come un modello di democrazia alternativo rispetto a quello della democrazia rappresentativa. Autori che sono ritenuti i ‘padri’ della democrazia deliberativa –da J. Rawls a J. Habermas- non hanno mai pensato di poter prescindere dalle forme della democrazia rappresentativa. Tra i due modelli vi è invece un rapporto di forte integrazione dialettica: sia nel senso che gli organi della democrazia rappresentativa possono far ricorso agli strumenti applicativi della democrazia deliberativa per giungere all’adozione delle decisioni di propria competenza, sia nel senso che le forme delle due democrazie possono svilupparsi per percorsi separati e non incompatibili.
In secondo luogo, il carattere non ideologico della democrazia deliberativa e la forte sottolineatura del rapporto virtuoso esistente tra processo deliberativo e qualità della decisione hanno favorito esperienze applicative di estremo interesse in diverse parti del pianeta. Tutte le recenti forme di relazionamento tra società e Stato, per riprendere un’espressione di U. Allegretti, che vanno sotto il nome di democrazia partecipativa, rappresentano applicazioni pratiche, riferite a problemi concreti e a fasi specifiche dei processi decisionali pubblici, del più ampio ideale normativo della democrazia deliberativa.
In terzo luogo, e solo in apparente contraddizione con quanto appena detto, non bisogna cadere nell’errore di credere che le richieste della democrazia deliberativa siano formulate con l’occhio rivolto a specifiche ricadute concrete. La democrazia deliberativa si pone infatti come un ideale normativo verso il quale devono tendere tutte le istituzioni della democrazia. È qui che, a mio avviso, si aprono le prospettive più interessanti per un’applicazione anche giuridica della democrazia deliberativa.
In via di sintesi, direi che sono due gli elementi che candidano la democrazia deliberativa ad esprimere, meglio di altre teorie, lo Zeitgeist, lo spirito del tempo contemporaneo: l’enfasi sul potere legittimante del procedimento, capace di creare un consenso razionale (laddove esso rispecchi i due requisiti sopra menzionati) e il carattere anti-ideologico (i partecipanti sono disposti a mutare le proprie preferenze di fronte alle migliori ragioni degli altri partecipanti).
Democrazia deliberativa e Costituzione
Dicevo delle prospettive applicative per il giurista. Le tesi della democrazia deliberativa, infatti, sono in grado di configurare in maniera innovativa il rapporto tra modello democratico e Costituzione. Provo ad esprimere alcune suggestioni che colpiscono l’interprete allorché egli si avvicini al testo costituzionale in una chiave deliberativa. In ciò che sto per dire non vi è alcuna pretesa sistematica, ma solo un invito ad ulteriori approfondimenti.
La prima ricaduta riguarda il rapporto tra aspetti valoriali e aspetti formali della costituzione. Se all’origine della norma legislativa (la decisione per eccellenza) vi deve essere un processo deliberativo in cui si scambiano informazioni e argomenti confortati dalle migliori ragioni, il ruolo della Costituzione perde rilievo dal punto di vista, per così dire, materiale, per acquisirne uno massimo dal punto di vista formale, di garanzia della massima apertura del procedimento decisionale. Per estremizzare ancora di più, possiamo dire che è il processo deliberativo a riempire di contenuto, di volta in volta, i c.d. valori costituzionali.
La seconda riguarda il controverso ruolo dei giudici delle leggi. Se compito della Costituzione è consentire a tutti o al maggior numero o, in via ancor più subordinata, a strutture rappresentative orientate al principio deliberativo l’individuazione dei contenuti dei valori costituzionali e, quindi, anche l’eventuale bilanciamento tra gli stessi, allora i giudici delle leggi devono limitarsi ad assicurare che i processi decisionali siano orientati effettivamente al principio deliberativo. Ciò implica che le Corti costituzionali dovrebbero assumere come compito principale (o esclusivo?) il controllo del carattere non discriminatorio (qui inteso in senso molto ampio) delle leggi. Le stesse Corti dovrebbero poi ispirare la loro stessa attività al principio deliberativo, consentendo, nei limiti del possibile, la massima apertura del procedimento giurisdizionale e conformando, sempre nei limiti del possibile, la propria attività decisionale al medesimo principio.
Giungo così ad uno dei punti nevralgici delle teorie della democrazia deliberativa: il rapporto tra potere giurisdizionale e autori delle decisioni pubbliche (uso questo termine per ‘aprire’ quanto più possibile il concetto). Sembra di poter dire che in una democrazia effettivamente deliberativa il ruolo dei giudici dovrebbe essere di grande riguardo, di forte self-restraint, nei confronti del potere deliberativo. Ciò implica, allo stesso tempo, un ruolo molto attivo dell’organo deliberante per eccellenza, il Parlamento.
Non a caso ho iniziato questa riflessione sottolineando la provenienza nordamericana del corpus teorico in esame. Nell’ordinamento statunitense il Parlamento, sebbene non possa sottrarsi a quella generale compressione dei propri poteri da parte dell’Esecutivo che si avverte in tutti gli Stati democratici, rimane ancora un organo estremamente attivo nell’ambito dello scenario istituzionale disegnato dal principio della separazione dei poteri.
A dimostrazione che la cultura deliberativa, diversamente delle mode culturali, attecchisce solo insieme e non contro gli schemi della democrazia rappresentativa.