Sin dall’età preindustriale, quando i giovani abbandonavano le famiglie per svolgere lavori servili nei campi o lavoravano come domestici nelle case, per sostenere l’economia familiare, (il cosiddetto life-cycle-servants), fino ad arrivare alle grandi migrazioni transoceaniche, l’uomo è stato mosso ora dal desiderio di acquisire nuove abilità commerciali, artigianali, professionali, ora di rifuggire un destino di miseria per arrivare all’affermazione di sé e della famiglia. La storia rivela che la mobilità ha tessuto la trama della società stessa.
La cronaca di questi giorni, ma anche la storia, mostrano l’ineluttabilità di un riordino della normativa vigente sull’immigrazione. A tal proposito, Massimo Livi Bacci individua una serie di punti da sviluppare per agire in questa direzione.
Breve excursus storico
Le radici del flusso migratorio vanno ricercate nella natura dell’uomo stesso. “La sedentarietà è stata una condizione ‘eccezionale’ nella storia dell’umanità, mentre la mobilità ha rappresentato, non solo una strategia di sopravvivenza, ma uno strumento indispensabile per esercitare mestieri e professioni che talora non erano affatto marginali” (Paola Corti, Storia delle migrazioni internazionali, Laterza).
Prima delle grandi migrazioni transoceaniche, del processo di industrializzazione, della crescita urbana, degli esodi di massa dalle campagne verso le città, la mobilità è stata, lungo percorsi di differente ampiezza territoriale o verso i paesi stranieri, una scelta abbracciata abitualmente da singoli individui, da intere famiglie, o da gruppi più o meno estesi di popolazione, accomunati dall’esigenza della pura sopravvivenza economica, della decisione di migliorare il proprio status sociale, dalla necessità di sfuggire alla guerra, alle persecuzioni politiche e religiose, ai conflitti civili.
Secondo la storica, Paola Corti, la mobilità è connaturata all’individuo. Non solo motivi economici ma anche motivi per così dire “professionali” spingevano ad abbandonare il proprio paese o semplicemente a spostarsi lungo il territorio. Ad esempio, durante l’ancien règime le pratiche migratorie erano connesse all’apprendimento ed affinamento di attività artigiane e commerciali. Per di più, secondo un recente filone di studi, si ritiene che le migrazioni abbiano contribuito a costruire la stessa idea di cittadinanza in società con forti componenti d’immigrazione, come quella americana.
L’immigrazione circolare e permanente
Livi Bacci, nel suo “appunto”, propone un nuovo metodo di approccio alla questione immigrazione. Un fenomeno strutturale ed inevitabile che permette senza dubbio di contrastare l’invecchiamento demografico della popolazione, passando, per così dire, da una riproduzione biologica ad una sociale. La logica della paura non può guidare le scelte politiche, non ha più ragion d’essere.
La domanda di lavoro straniero continuerà a mantenersi alta ancora per due o tre decenni, ribadisce l’autore, e questo dipende da una serie di fattori, quali: la sensibile diminuzione della popolazione in età attiva, tra i 2 e i 4 anni, da 15 a 11 milioni (tra il 21 e il 23), che porta ad un elevato tasso di popolazione anziana con la crescita di domanda di servizi personali e una economia in maggior misura labour intensive, ad alta intensità di manodopera.
Allo stesso tempo questo non vuol dire che tutta la domanda dovrà essere soddisfatta, la politica deve evitare che settori poco competitivi e innovativi perdurino per l’abbondanza di manodopera straniera regolamentandone i flussi. L’aspetto strutturale dell’immigrazione si lega alla sua “durata”, si distingue, infatti, tra immigrazione “circolare” o temporanea e immigrazione permanente.
E’ più vantaggiosa un’immigrazione permanente che temporanea o circolare. Ancora una volta la storia ci è maestra. L’esperienza, ad esempio, dei gastarbeiter negli anni Cinquanta, i cosiddetti “lavoratori ospiti” in Germania, è fallita nel suo intento: quello di non rendere permanente ciò che doveva essere temporaneo, impedendo una effettiva integrazione degli immigrati, che venivano semplicemente “tollerati” in quanto di passaggio. Gran parte degli immigrati si è poi stabilita nel paese di accoglienza con il beneplacito delle forze produttive.
Non a caso l’immigrazione è perlopiù permanente, per questo si pone la questione dell’accesso degli immigrati ai diritti sociali e di cittadinanza.
Secondo Livi Bacci i motivi che spingono, invece a privilegiare un’immigrazione temporanea dipendono dal fatto che essa ridurrebbe le perdite per il brain drain nei paesi di partenza massimizzando le rimesse per chi resta in patria. Esiste anche un motivo “ufficioso” della predilezione per una migrazione circolare e dipende dal convincimento secondo cui la domanda di lavoro, in primis per mansioni meno qualificate, possa essere soddisfatta da questo tipo di migrazione.
Si minimizzano così i costi sociali, welfare, servizi pubblici e nello stesso tempo si evita che persone poco qualificate e con un basso livello d’istruzione si stabiliscano in modo permanente nel paese di accoglienza. Invece, i ricongiungimenti familiari, la nascita di figli, la graduale, seppur difficile integrazione nel mondo del lavoro, inducono a restare.
“La società deve essere in grado di ‘convertire’ l’immigrato in cittadino”.
Le istituzioni europee stanno sostenendo una “Politica di coerenza per lo sviluppo” che riconosce il ruolo centrale delle migrazioni e la sua relazione con lo sviluppo economico, come dimostrato anche dal rapporto dell’Ocse del 28 sulle migrazioni internazionali.
Contro l’irregolarità
Un giro di vite contro l’irregolarità. Sembra questo il motto per cominciare a piantare il seme dell’integrazione. Livi Bacci critica il “pacchetto sicurezza”, ritiene che vi sia stato un eccessivo inasprimento della normativa che non ha permesso di contrastare fattivamente l’irregolarità.
Vi è stato, infatti, un rallentamento nella lotta all’evasione e all’economia sommersa; inoltre la normativa per l’assunzione legale di uno straniero residente all’estero attraverso la “chiamata nominativa o numerica” (integrata dalla legge Turco-Napolitano) è farraginosa e dunque i piccoli imprenditori optano per assunzioni in nero. Infine la brevità dei permessi di soggiorno, il loro costo ed artificiosità aumentano la probabilità che un regolare diventi irregolare.
Si aggiunge, poi, il problema dell’irregolarità via mare che sembra nel 28 essersi ridotta in seguito al Trattato Italia-Libia e all’operato di Frontex (tra il 2 e il 27 sono stati registrati arrivi tra le 14mila e 27mila unità annue, fino a punte di 37mila unità che si sono ridotte a 9mila nei primi 1 mesi del 28).
Livi Bacci ammonisce la politica sottolineando la necessità di non generare “bolle di irregolarità” procedendo, ad esempio, a regolarizzazioni ad personam per chi compie atti di rilievo sociale ed umanitario, per chi ha dimostrato predisposizione all’integrazione e collaborazione nel paese di adozione ammettendo la stessa dignità e utilità sociale riconosciuta a chi lavora in famiglia (colf, badanti) anche a mestieri come muratore, operaio o bracciante.
Sarebbe, altresì necessario provvedere al rimpatrio volontario degli irregolari secondo quanto dispone la direttiva europea 28/115/EU; ma per la legge vigente un meccanismo del genere corrisponderebbe all’autodenuncia con seguente procedimento giudiziario ed espulsione.
Riforme: verso una nuova politica
Cosa si può fare per cambiare rotta? “Nuove vie legali di accesso vanno introdotte”, così risponde Livi Bacci.
Queste possono essere sintetizzate in 5 punti:
– Ingresso per ricerca di lavoro sponsorizzato e garantito da istituzioni e organizzazioni certificate (sindacati, associazioni di imprenditori);
– Ingresso per ricerca di lavoro su domanda dei singoli, dietro presentazione di garanzie ed entro tetti numerici prefissati;
– In presenza di precise condizioni, convertire il permesso di soggiorno breve in permesso di soggiorno per lavoro;
– Passare da una “fuga di cervelli” ad una “circolazione di cervelli”, favorendo l’ingresso di persone con alti profili professionali;
– Agevolazioni all’ingresso di investitori e imprenditori.
Una buona politica migratoria deve considerare anche il rapporto tra domanda di lavoro straniero ed effettiva risposta d’integrazione, attraverso la disponibilità di abitazioni, infrastrutture e servizi. Questo significa anche cominciare a vedere l’immigrato come persona chiedendogli non “cosa sai fare” o “che lavoro vuoi fare”, ma “chi sei” e “qual è il tuo programma di vita”, e capire che contributo può dare come portatore di capitale umano.
L’immigrazione in Italia, come nel resto d’Europa, è soprattutto legata al lavoro, attorno ad esso si crea una catena fatta di ricongiungimenti familiari. I parenti, i familiari degli immigrati, a loro volta, cominciano a muovere i primi passi nel mondo del lavoro. Nascono i loro figli in Italia, studiano, entrano nel mercato del lavoro e sono destinati, prima o poi a diventare cittadini italiani.
Bisognerebbe, dunque, agire soprattutto sul fronte lavorativo per puntare ad una politica dell’accoglienza.
Una politica di tal fatta richiede risorse umane ma anche economiche. Potrebbe essere utile l’istituzione di un Fondo per l’integrazione sostenuto dallo Stato, dai datori di lavoro, da lavoratori stranieri autonomi e dalla collettività tutta affinchè gli stranieri possano apprendere la lingua, avere sostegni per case e lavoro nonché aiuti nelle scuole per i propri figli.
E’ d’obbligo un cambio di filosofia. “L’immigrazione non è una protesi temporanea di una società anchilosata (…) ma un trapianto, spesso permanente”, ribadisce Livi Bacci. La palingenesi della società scaturisce da queste nuove energie che vanno a rinvigorire un capitale umano, demografico e sociale assottigliatosi nel tempo.