Quando lo straniero diventa "agente per lo sviluppo" del paese

"Bisogna adoperarsi perchè gli immigrati contino di più come lavoratori, imprenditori e cittadini"

La ricerca "ImmigratImprenditori", non si è occupata meramente di trasporre dati riguardanti singole regioni e settori produttivi, ma ha posto in risalto gli effetti positivi dell’altra faccia dell’immigrazione, forse la meno nota. Pagine di giornali lasciano spazio a situazioni non propriamente edificanti per l’integrazione e la collaborazione, al contrario, buone pratiche inclusive e di integrazione passano inosservate. L’altra immigrazione è fatta anche di stranieri che decidono di investire sulle proprie capacità alla ricerca di un riscatto sociale. La strada dell’imprenditoria porta con sé la speranza di una realizzazione professionale più appagante e dignitosa che comporta indubbi sacrifici al pari della scelta di abbandonare il proprio paese.

La buona immigrazione che resta nell’ombra

L’attività di questi “nuovi” imprenditori non solo incide positivamente sul Pil nazionale (per il 1 percento), ma rappresenta anche una rete che, giorno dopo giorno, viene costruita e agganciata al paese d’origine, la cosiddetta imprenditoria di ritorno. Diventando “agenti transnazionali per lo sviluppo”, contribuiscono a rinsaldare o a costruire ex novo, reti internazionali per l’economia italiana. In un momento di crisi come quello attuale, quando gli investimenti esteri stentano a decollare, una buona soluzione, nonché buona pratica d’integrazione, potrebbe essere il sostegno all’imprenditoria immigrata che, tessendo i rapporti con il paese d’origine, ne rappresenta altresì una chance di crescita economica.

Si cita, a tal proposito, l’esempio di “Ghanacoop” che in collaborazione con la provincia di Modena e l’Organizzazione internazionale dei migranti, (Iom), è riuscita a commercializzare i prodotti locali creando lavoro non solo in Italia ma anche in Ghana. Precisamente la cooperativa importa nel nostro paese i prodotti dal Ghana, principalmente frutta, ed esporta prodotti italiani in Ghana. Parte del guadagno costituisce le royalties che vanno a sostenere il paese d’origine. Questa rete di import-export giova tanto all’Italia quanto al Ghana.

Le parole del presidente di Ghanacoop, Thomas McCarthy, esprimono il senso del progetto: “Ghanacoop è la prova che gli immigrati sono una risorsa importante per lo sviluppo sociale ed economico sia del paese ospitante che del paese d’origine. Tre fattori sono la chiave del nostro successo: unità, dedizione e partnership”.

Immigrati che fanno crescere l’Italia


Sotto la lente di Ethnoland esperienze riuscite di integrazione che aggiungono un mattone ad un edificio ancora in costruzione. Necessario per lo studio è stato anche il “Dossier statistico immigrazione Caritas/Migrantes” che presenta i dati sull’evoluzione delle iniziative imprenditoriali straniere. Sul tappeto anche gli ostacoli in cui incappano gli imprenditori stranieri nonché i benefici e le prospettive per il futuro economico e sociale del paese.

Alcuni degli imprenditori immigrati hanno già lavorato in patria come artigiani, piccoli imprenditori o liberi professionisti e possono dunque ottimizzare le competenze acquisite a vantaggio della collettività. Inoltre, il livello di istruzione è nettamente superiore a quello dei lavoratori dipendenti immigrati. Cercano di far valere le proprie qualità professionali tutt’altro che trascurabili. Sono indubbiamente portatori di capitale umano.

Spesso la buona volontà “immigrata” di fare qualcosa di produttivo e qualitativamente soddisfacente si scontra con la macchina burocratica che sembra intirizzire il sistema normativo piuttosto che ammorbidirlo. Non è possibile restare ancorati ad un tipo di immigrazione “usa e getta” legandone le sorti alle varie congiunture economiche. Questo perché la scissione tra normativa e sistema economico è sfavorevole non solo per gli immigrati ma anche per il “sistema paese”.

La portata del fenomeno

Il presidente della Fondazione Ethnoland, il camerunense Otto Bitjoka (che si è guadagnato una copertina su Panorama Economy) ha deciso di pubblicare il rapporto sugli immigrati imprenditori con l’intenzione di mostrare il contributo di quanti, giunti nel nostro paese, aspirano semplicemente ad essere cittadini “normali” desiderosi di lavorare scommettendo sulle proprie capacità ma anche con l’intento di dare un contributo al paese. Nient’altro (si veda l’intervista ad un imprenditore egiziano in occasione della presentazione del rapporto a Milano).

Un grido lanciato anche da chi, nato in Italia ma da genitori stranieri, ha un percorso tortuoso davanti a sé, un labirinto senza il “filo d’Arianna” a condurlo fino alla cittadinanza (si veda il progetto G2-seconde generazioni).

Sono oltre 165mila gli immigrati titolari di imprese, tra i quali vanno inclusi anche gli italiani rimpatriati e i cittadini stranieri e non soltanto persone nate all’estero. Si tratta di 14mila aziende create mediamente al ritmo di 2mila ogni anno. Mentre il numero delle imprese italiane sembra essersi paralizzato, il fenomeno dell’imprenditoria straniera cresce facendo rifiorire quanto si verificò tra gli anni Sessanta e Settanta, nelle regioni del Nord, con il boom delle piccole imprese, nate dall’impegno dei meridionali che avevano lavorato come dipendenti nelle grandi fabbriche del Nord. Il palcoscenico è lo stesso ma i protagonisti, ora, sono gli immigrati. Un fenomeno, questo, che abbraccia tutto lo stivale con esempi di eccellenza anche al Sud.

In testa vi è la Lombardia con 3mila imprenditori, 2mila in Emilia Romagna e una buona parte si concentra anche nel Lazio, Piemonte, Toscana e Veneto con 15mila imprenditori. Il sud risponde così: in Sardegna, Sicilia e Calabria gli immigrati hanno eguagliato il tasso di imprenditorialità degli italiani. Milano e Roma, invece, sono tra le province con la maggiore concentrazione di imprese straniere, rispettivamente con oltre 17mila e 15mila seguite da Torino con dati che si attestano sulle 11mila aziende.

I settori più attivi

Il settore più gettonato è quello dell’industria con oltre 83mila aziende. Al suo interno primeggia il comparto edile, seguito da quello tessile, dell’abbigliamento e calzature. Il settore dei servizi vede, invece, la prevalenza di aziende commerciali. Ma che lingua “parlano” questi settori? Quale il paese, per così dire, d’origine? I marocchini detengono circa un sesto delle iniziative imprenditoriali mentre i filippini circa quattrocento.

Una tendenza interessante è connessa all’allargamento ad Est dell’Unione Europea che ha portato ad una crescita esponenziale delle aziende romene, circa 23mila. Nel 1998 le imprese nate dall’impegno di cittadini comunitari erano mille, dieci anni dopo siamo giunti a ben 31mila.
Le collettività maggiormente operative sono: il Marocco dedito perlopiù al commercio, (oltre il 67 percento delle imprese), la Romania all’edilizia,(più dell’8 percento) invece la Cina si divide tra industria manifatturiera (46 percento) e commercio (44,6 percento).

I marocchini sono i primi in Piemonte con 5mila aziende, i romeni primi nel Lazio con 3mila aziende, i cinesi con più di 5mila aziende in Toscana, mentre gli albanesi primeggiano in Emilia Romagna con circa 3mila imprese e i tunisini in Sardegna.

I vantaggi occupazionali ed economici

Il “sancta sanctorum” della buona immigrazione, è di carattere occupazionale, economico e finanziario. Sotto il profilo occupazionale l’aspetto positivo è dato dal fatto che l’impresa rappresenta non solo l’occupazione per lo stesso titolare ma diventa la fonte per dare lavoro anche ai connazionali e agli stessi italiani.

Sotto il profilo economico, il lavoro imprenditoriale immigrato incide per il 1 percento sul Pil (come mostra anche uno studio di Unioncamere e dell’Istituto Tagliacarne, si veda anche: “Le imprese di immigrati e le banche”). Questo perché il tasso di attività è più elevato rispetto agli italiani; in molte regioni, ad esempio, la ricchezza prodotta dagli immigrati supera i 1 miliardi di euro l’anno: 15 miliardi circa nel Lazio e oltre 3 miliardi nella Lombardia, questi i dati del rapporto Ethnoland.

Sotto il profilo finanziario, l’equipe del “Dossier statistico Immigrazione Caritas/Migrantes”, sottolinea il gettito fiscale prodotto da questi “nuovi” imprenditori: nel 26 era pari a 4 miliardi di euro, mentre nel 27 è salito a 5,5 miliardi di euro. Dunque bisognerebbe riflettere su questi aspetti positivi quando si decide di finanziare politiche di integrazione.

Sotto il profilo previdenziale, l’Inps ha appurato che gli immigrati contribuiscono per 5 miliardi di euro alle casse previdenziali essendo questi ultimi, per la maggior parte, in età lavorativa e non percettori di pensioni. In definitiva le risorse fiscali prodotte dagli immigrati sono superiori ai costi per finanziare i servizi a loro rivolti e le politiche di inclusione. E’ ragionevole pensare che debbono essere stimati più come una risorsa che come un costo.

Bisognerebbe puntare, inoltre, ad eliminare gli ostacoli burocratici che impongono lunghe attese per aprire un’attività e maggiori sostegni, inoltre, dovrebbero essere indirizzati all’imprenditoria sociale. Gli immigrati potrebbero rappresentare un valido aiuto a favore dei propri connazionali gestendo servizi a loro diretti.

Otto Bitjoka riassume così le speranze per il futuro: “(…) In un paese che non riesce ad attirare investimenti dall’estero e dove annualmente vengono meno di mille imprenditori, una rete internazionale più ampia può essere costituita tramite gli immigrati (…) Superando la diffidenza nei confronti degli stranieri, bisogna abituarsi a pensare che convenienza economica e solidarietà possono andare di pari passo”.