Per far sì che la sovranità possa finalmente sprigionare le forze ancora inespresse, in un rapporto di complementarietà con le forme più tradizionali legate alla democrazia rappresentativa ed alla democrazia diretta, occorre che la categoria della democrazia partecipativa, oggi assunta in chiave prevalentemente descrittiva, recuperi la propria portata normativa, riconducendo il principio di partecipazione entro il quadro costituzionale e richiamando il legislatore all’obbligo di svilupparne le indicazioni inattuate. Ciò impone di recuperare una riflessione che, muovendo dai luoghi della Costituzione e dal rilievo che il principio di partecipazione vi assume, giunga a riconoscere in tale principio un metodo di governo e nelle relative situazioni soggettive un nucleo di interessi configurabili (anche) come diritti sociali.
Un simile obiettivo richiede, tuttavia, di liberare la riflessione dai pregiudizi giuridici e dalle retoriche politiche che tanto pesantemente hanno afflitto le vicende della partecipazione, ammettendo che la diffusa richiesta di garanzie di effettività non può sperare di essere soddisfatta se non attraverso la costruzione di un quadro (pur minimo) di regole volte a garantirne precondizioni, opportunità, livelli essenziali.
Alcune garanzie minime per la partecipazione
Del resto, interrogarsi oggi su come regolare la partecipazione non sembra affatto porsi in controtendenza rispetto ai processi di semplificazione e deflazione normativa, dal momento che non si tratterebbe di introdurre procedure decisionali ulteriori e diverse rispetto a quelle esistenti quanto piuttosto di migliorarne l’efficacia attraverso l’innesto di momenti partecipativi. Peraltro il ruolo della funzione normativa non si limita all’imposizione ma contempla anche la promozione, la creazione di opportunità, la rimozione di ostacoli (come dimostra il sempre più frequente utilizzo, nella legislazione regionale, dello strumento dell’incentivo nei confronti delle pratiche partecipative messe in atto dagli enti locali).
Inoltre, il timore di irrigidire eccessivamente le pratiche partecipative attraverso la loro regolamentazione, oltre ad essere smentita dai fatti (il crescente numero di disposizioni contenenti principi e regole sulla partecipazione), sembra dimenticare l’esigenza, ugualmente garantista ma certamente più pressante nelle società non omogenee, di mettere “nero su bianco” alcune garanzie minime, al fine di non rimettere le garanzie stesse a contingenti opportunità o alla buona volontà manifestata dai governanti di turno.
I costi della non partecipazione
Infine, rispetto ai timori di allungamento dei tempi e di accrescimento dei costi dei processi decisionali, occorre considerare – per converso – i costi della “non partecipazione” e dell’esclusione, rilevanti e valutabili non soltanto in termini di scarsa democraticità delle decisioni bensì anche nei termini economici della conseguente inefficacia delle politiche: sono i costi derivanti dalla mancata utilizzazione della partecipazione in funzione di riduzione preventiva della conflittualità, come dimostrano il caso dei movimenti per il blocco delle grandi opere e la soluzione proposta dal disegno di legge Camera n. 2271, consistente nella condanna delle associazioni di tutela ambientale al risarcimento del danno (oltre che alle spese del processo) nel caso in cui il ricorso sia respinto perché manifestamente infondato. Proposte come questa, anziché ricercare la soluzione sul terreno della maggiore considerazione degli argomenti in conflitto attraverso un’anticipazione dell’inclusione dei soggetti interessati, si rivolgono piuttosto verso strumenti punitivi e disincentivanti, evidentemente inaccettabili in quanto volti a scaricare i costi (ovvero i danni) della non partecipazione proprio sugli esclusi, così destinati a “pagare” due volte.
Difficoltà oggettive e difficoltà nuove
E’ vero che si assiste, da alcuni anni, ad una rinnovata tensione normativa volta a disciplinare taluni profili della partecipazione dei privati ai processi decisionali pubblici; ma si tratta di un fenomeno che sembra ancora lontano dall’appagare le esigenze garantiste della democrazia pluralista, e che anzi rischia di confonderne ulteriormente la realizzazione laddove mantiene irrisolte ambiguità concettuali (ben visibili a livello terminologico) o appare orientato più ad assicurare la legalità di atti e procedure che l’effettività di diritti e interessi assunti come valori etici e sociali preesistenti all’ordinamento.
Ma vi sono anche difficoltà oggettive ed in parte nuove, legate alle profonde trasformazioni istituzionali in corso: l’interlocutore politico non è più unitario ma si è sfrangiato in un assetto reticolare, non più riconducibile alla politica genericamente intesa bensì alle politiche pubbliche, non più ad un unico attore bensì ad una congerie di soggetti diversi; le propensioni monocratiche e populiste connesse alla tendenza verso forme di governo di tipo presidenziale introducono dinamiche tendenzialmente ostili alle istanze della democrazia partecipativa.
Da tutto ciò la schizofrenia della riflessione giuridica, perennemente sospesa tra l’enfasi delle proclamazioni di principio e la fragilità degli strumenti concreti, fra culture politiche ostili e atteggiamenti velleitari.
Le precondizioni della partecipazione
Oggi, dopo le conquiste teoriche e giuridiche della trasparenza e dell’informazione pubblica, la costruzione di un quadro di regole fondamentali in tema di partecipazione appare come il conseguente e irrinunciabile approdo per realizzare appieno quella effettività su cui si fonda la complessa previsione dell’art. 3, 2° comma Costituzione.
La riflessione sulla trasparenza, la pubblicità e la qualità dell’informazione pubblica ha avuto il pregio di aprire la strada alla costruzione di nuove forme di distribuzione del potere, disseminando l’ordinamento di istituti giuridici che, oltre a tutelare valori rilevanti in sé, assumono oggi un’importante funzione strumentale rispetto alle precondizioni della partecipazione: tutti quegli istituti tendono, infatti, verso la formazione di opinioni critiche, di una consapevolezza civica intesa come capacità di compiere scelte e di resistere a pressioni di carattere demagogico.
Vi è dunque un continuum fra trasparenza, informazione, comunicazione, partecipazione e sussidiarietà: un incremento di potenzialità che riflette il mutamento di ruolo dell’individuo e della collettività, non più soltanto destinatari esigenti di una macchina ordinamentale costruita per soddisfare l’interesse generale ma essi stessi risorsa, in nome di un diritto ad avere un’opinione ed a declinarla in una vita attiva e responsabile.
Qualità ed effettività
Ma allora, e tanto più ove si guardi al crescente interesse suscitato in questi anni dal dibattito sulla qualità delle informazioni e delle politiche pubbliche, il passo verso la qualità della partecipazione risulta estremamente breve, e comunque necessitato.
La stessa qualità della rappresentanza e della politica, di cui da tempo si lamenta a gran voce la dispersione, non può che passare per la qualità della partecipazione, ossia per il recupero di una qualificazione militante e critica di democrazia.
Quello di democrazia partecipativa è un concetto esigente: richiamando la partecipazione permanente al governo della cosa pubblica in collegamento con le dinamiche dell’eguaglianza sostanziale e della solidarietà, essa presuppone una produzione continua e coerente di informazione, conoscenza e consapevolezza, ben al di là di quanto implicato dalle più mirate e contingenti esigenze della democrazia rappresentativa e della democrazia diretta.
Da ciò deriva la necessità di regole volte a garantire non tanto l’effettività di una partecipazione quale che sia, quanto piuttosto l’effettività di una partecipazione di qualità: regole volte ad orientare teleologicamente gli interventi regolativi, non per frustrare la spontaneità dei processi partecipativi né la fantasia istituzionale quanto, piuttosto, per offrire opportunità e per scongiurare i rischi (e i danni) di una partecipazione assente o manipolata.
Per il futuro serve la memoria
La costruzione condivisa delle risposte politiche ai bisogni della collettività necessita di politiche partecipative di lungo termine, sganciate dalla contingenza e dalle strategie della politica strettamente intesa. Mentre si assiste alla sempre più preoccupante diffusione di una politica della seduzione, causa ed effetto di coscienze sopite, poco informate, manipolate, il recupero della portata normativa del principio di partecipazione quale metodo di governo impone di uscire dallo schiacciante presente e di riconnettere passato e futuro: quella memoria storica e istituzionale che presuppone, negli organi rappresentativi, la perdurante capacità di intendere come propria missione quella di essere i portatori attuali della coscienza storica del Paese; quella capacità di narrare il futuro senza la quale la politica è muta.
Formare l’”abitudine alla democrazia”
Nelle pieghe della democrazia partecipativa sono rinvenibili gli strumenti per raccogliere quella sfida. Cosa sono, del resto, le diffuse esperienze di sussidiarietà orizzontale se non sviluppi virtuosi della partecipazione resi possibili da un rinnovato senso di solidarietà, ossia di quel principio che ha così fortemente caratterizzato il nuovo patto costituzionale del 1948 e la nostra storia repubblicana? E cosa sono le politiche di progettazione urbana partecipata se non l’espressione di un governo condiviso del territorio in funzione di ambienti urbani vivibili e sostenibili, e dunque di una politica che guarda al futuro?
Ma in assenza di un sistema di regole e di garanzie che abbiano come obiettivo l’accrescimento della qualità della partecipazione difficilmente quei momenti virtuosi potranno trasformarsi in normalità e generare nuove forme di “abitudine alla democrazia”.