Il convegno, che ha visto come protagonista l’unità operativa di Perugia e in particolare come responsabile scientifico la Prof.ssa Alessandra Valastro, si è svolto in due intense giornate di studio (11 e 12 marzo) che hanno visto alternarsi studiosi e ricercatori di grande spessore che hanno posto la loro attenzione sui temi della partecipazione, ma anche esponenti del mondo del lavoro, della politica e del sociale che ogni giorno quei temi li mettono in campo.
Oltre alle relazioni dei partecipanti al Prin e agli interventi programmati di diversa natura, è stata anche coordinata un’interessante tavola rotonda che ha visto come protagonisti alcuni importanti giuristi che hanno espresso liberamente le loro impressioni più o meno tecniche sull’argomento del Prin e sulle giornate di studio.
Le conclusioni sono state affidate al presidente di Labsus Gregorio Arena in qualità di coordinatore nazionale del Prin.
Prima giornata: i saluti
I lavori sono stati introdotti dai saluti di rito e in particolare dal sindaco di Perugia Wladimiro Boccali e Giorgio Edoardo Montanari, preside della facoltà di Scienze politiche dell’università che ospita il convegno, che ricorda a tutti l’importanza del tema della democrazia partecipativa in un momento storico come quello attuale in cui la disaffezione nei confronti della “cosa pubblica” è sempre più diffusa.
Proprio ora, dice Montanari, questo nuovo, o meglio rinnovato istituto democratico, può fungere da antidodo contro lo scollamento tra Stato e cittadini, tra amministratori e amministrati.
Il primo caso viene presentato da Aart Heering dell’ambasciata del Regno dei Paesi Bassi e riguarda proprio i Paesi Bassi a cui viene attribuito comunemente un tradizionale federalismo ed una forte amministrazione decentralizzata. In realtà non si tratta di uno stato federale ma di un Paese che ha avuto origine dall’unione di sette delle dodici attuali province legate soltanto dalla lotta comune contro le tasse e l’assolutismo.
C’è sempre stata a livello locale un’amministrazione partecipata per esempio riguardo al rafforzamento delle dighe, ma più che di un federalismo amministrativo, si può parlare di federalismo culturale, religioso e sociale o come afferma il sindaco di Amsterdam di un Paese di minoranze in cui nessuno ha un potere tale da imporsi, ma in cui c’è uno scarso senso comune o di farcela insieme.
Partecipazione, politiche pubbliche, diritti
Questo il nome della relazione introduttiva di Alessandra Valastro con la quale vengono posti i termini di una vera e propria sfida: la formulazione di una teoria generale della partecipazione e il raggiungimento di una partecipazione di qualità.
In un momento storico come quello che stiamo vivendo caratterizzato da una preoccupazione diffusa per le sorti della democrazia, la stessa qualità della politica e della rappresentanza, non può che passare per la qualità della partecipazione.
L’obiettivo della ricerca è quello di confrontarsi sul tema ambiguo della partecipazione, superando per quanto possibile quella scarsa comunicazione non soltanto tra le diverse discipline che se ne occupano, ma anche tra mondo scientifico e istituzioni.
Una teoria generale della partecipazione consentirebbe di orientare le dinamiche del processo regolativo in atto, recuperando il valore dei principi costituzionali che fanno esplicito e implicito riferimento alla partecipazione.
A tale proposito la Prof.ssa Valastro fa riferimento agli articoli 1, 2 e 3 della Costituzione e al significato che i costituenti hanno voluto attribuire ai concetti di esercizio della sovranità popolare, di uguaglianza sostanziale e di solidarietà. In particolare il mutamento che essi hanno voluto apportare alla vecchia impostazione liberale: passare da una partecipazione episodica relativa al momento del voto e alle libertà civili, ad una partecipazione strutturale e strutturata nelle dinamiche di esercizio del potere.
A questo aspetto oggettivo della partecipazione, va aggiunta una dimensione soggettiva che può essere ritrovata nell’articolo 3 della Costituzione, in cui il principio si fa diritto articolandosi in pretese e situazioni, per l’appunto, soggettive.
La distinzione tra diritti partecipativi classici caratteristici della democrazia rappresentativa e i nuovi diritti sociali di partecipazione, dice Alessandra Valastro, dovrebbe ravvisarsi nell’obbligo di intervento positivo che i secondi presuppongono in virtù del loro collegamento proprio con l’articolo 3 della Costituzione.
Altro riferimento costituzionale è l’articolo 2 che afferma il principio di solidarietà con lo scopo di legittimare i meccanismi di integrazione sociale, fondamento, quest’ultimo, del principio di partecipazione.
Il quadro costituzionale, quindi, offre delle indicazioni importanti sia a livello di macro-principi che dovrebbero fornire gli strumenti per la formulazione di regole generali sulla partecipazione, che a livello di micro-principi che invece dovrebbero servire per la formulazione di regole partecipative sulla base delle singole politiche.
Quanto ai macro- principi o macro- finalità, si possono individuare almeno quattro spunti:
- il tipo di partecipazione a cui ci si riferisce recuperando un’omogeneità di linguaggio;
- il riconoscimento di un obbligo da parte del legislatore di assicurare i livelli minimi di partecipazione;
- la categoria dei soggetti istituzionali tenuti a garantire l’effettiva partecipazione ai processi decisionali;
- le tecniche di normazione della partecipazione.
Quanto ai micro- principi o micro- finalità, oltre ai profili organizzativi e procedurali, non si può non far riferimento ai criteri di scelta dei soggetti e al problema dell’inclusività, ovvero di far partecipare in condizioni di uguaglianza tutti coloro su cui ricadranno le conseguenze della decisione.
Quanto ai soggetti istituzionali coinvolti, Alessandra Valastro spiega la particolare attenzione rivolta alle regioni nel lavoro di ricerca.
Nel quadro sempre più articolato degli attori istituzionali coinvolti dal tema della partecipazione, quelli regionali sembrano assumere per diverse ragioni un ruolo strategico.
Innanzitutto per l’importante potere statutario e legislativo che consente quella modulazione di fonti e prescrizioni di cui si è parlato a proposito dei macro-principi: in particolare i nuovi statuti hanno rilanciato la cultura della partecipazione, attraverso delle norme che, pur scontando una certa genericità e imprecisione, denotano sicuramente una rinnovata attenzione al tema che va assecondata e incentivata.
Le regioni, infatti, possiedono gli strumenti giuridici necessari al rafforzamento e alla stabilizzazione delle pratiche partecipative affermatesi a livello locale, per esempio, istituendo un idoneo sistema di incentivi.
Infine la regione rappresenta la cartina al tornasole di quelle tendenze politiche verso il presidenzialismo che stanno emergendo con sempre più evidenza e che porterebbero inevitabilmente ad un indebolimento delle assemblee rappresentative.
In uno scenario di questo tipo risulta essere necessario un recupero, iniziando proprio a livello regionale, dei canali di interlocuzione con la società civile per fornire un apparato di nuovi e più esaustivi strumenti informativi.
Nell’ultima parte dell’intervento viene poi ribadita l’importanza strategica della funzione normativa nel campo della partecipazione, che non si limita all’imposizione, ma promuove, crea opportunità e rimuove ostacoli.
A chi parla di allungamento dei tempi e di aumento dei costi, la relatrice risponde parlando degli altrettanto alti costi della non partecipazione e dell’esclusione in termini di democraticità ma anche di inefficienza delle politiche.
Prima sessione: il federalismo come metodo di governo partecipato
La prima sessione vedrà la coordinazione del prof. Roberto Segatori (università di Perugia) che introduce le relazioni in programma facendo riferimento alle tre stagioni della partecipazione che hanno visto come protagonisti, rispettivamente, i partiti nel decennio 195-196, i movimenti nel decennio successivo, fino ad arrivare ai “ cittadini singoli o associati” della stagione in corso.
Federalismo e partecipazione: una questione di significato
La relazione di Margherita Maria Procaccini (docente all’università di Perugia e partecipante al Prin) ha analizzato il significato del titolo del Prin e in particolare la parte riguardante “Il federalismo come metodo di governo (partecipato)” per cercare di mettere in evidenza ciò che il federalismo ha in comune con il principio di partecipazione.
La parola “federalismo” deriva dal latino “foedus” e significa “patto di alleanza”, “accordo associativo con determinati fini”. Inteso così, presuppone per certi versi la volontà di un incontro di identità diverse alla ricerca di elementi di comuni nella costruzione e manutenzione di un habitat all’interno del quale tutti i componenti abbiano voce e partecipino alla cosa pubblica.
Così definito il federalismo come metodo do governo non può non essere strettamente correlato a termini e principi come la cooperazione , l’intervento, l’adesione, l’interessamento la solidarietà, la presenza.
Diversamente da quanto abitualmente si è portati a credere, il termine federalismo, non indica semplicemente, o comunque non solo, una determinata forma di Stato o un sistema di distribuzione di poteri tra governo centrale e governi locali, ma piuttosto un metodo di governo opportunamente seguito dal dato qualificante della partecipazione.
Partecipazione e federalismo in uno Stato unitario: il caso dell’Olanda
Questo il titolo della relazione del secondo ospite straniero del convegno, Theo Toonen ( Delft University of technology e Leiden University ).
L’Olanda è uno Stato unitario ma fin dalle sue origini ha assunto come principio fondamentale quello di un governo condiviso, ovvero, di un co-government legato all’interdipendenza delle diverse funzioni, per cui le decisioni sono frutto del potere ma sono condivise.
Questa particolare forma di federalismo nasce in Olanda come opposizione al sovrano e alla Chiesa, legato inizialmente al calvinismo. Una forma di federalismo che si realizza in una sorta di associazionismo di unità interdipendenti per cui è il consenso che genera la legittimazione dello Stato, invertendo così il concetto napoleonico di unità centrale forte.
“Not authority creates unity but unity creates authority”.
L’aspetto negativo di tutta questa condivisione e decentralizzazione è una forte frammentazione del sistema che stenta a trovare uno spirito unitario.
La partecipazione in una democrazia “diretta”: il caso della Svizzera
Altro caso proposto è quello della Svizzera che viene delineato nei suoi aspetti peculiari e controversi da Antoine Chollet dell’università di Lausanne.
La Svizzera nasce come una Confederazione di stati sviluppandosi poi a partire dal 1848 come una Repubblica federale in cui i diversi cantoni risultano più importanti dello Stato centrale tanto che fino al 198 c’erano studiosi e ricercatori che ne mettevano in dubbio la reale consistenza.
La Svizzera è uno Stato molto decentralizzato in cui non esiste una amministrazione centrale e l’unico istituto federale è rappresentato dall’esercito.
Quanto agli istituti di democrazia diretta o semidiretta che la caratterizzano, se ne possono indicare ben tre che però non sempre sortiscono effetti desiderati o desiderabili.
In particolare:
- Dal 1848 il referendum obbligatorio riguardante gli emendamenti da apporre alla Costituzione che assume sostanzialmente un carattere di legittimazione;
- Il referendum opzionale o facoltativo che necessita di cinquantamila firme per essere indetto e prevede il diritto di veto nei confronti delle leggi approvate. Di norma viene esercitato nella metà dei casi;
- L’iniziativa popolare che necessita di centomila firme per essere presentata e che prevede la presentazione di proposte di trasformazione della Costituzione. Questo terzo istituto funziona però molto raramente e in tutto è stato utilizzato non più di sedici o diciassette volte.
Nonostante siano previsti istituti di democrazia diretta, e nonostante il voto sia “facilitato” dal fatto che non esistono seggi elettorali dove recarsi per esercitare il proprio diritto ma tutto il materiale arriva direttamente nelle case dei cittadini, in Svizzera i dati in merito alla partecipazione sono molto bassi e aumentano soltanto nell’unico cantone in cui il voto è obbligatorio.
Ciò che il Prof. Chollet vuole mettere in evidenza è che in Svizzera la democrazia diretta ha finito per assumere con il tempo un carattere tradizionale e conservatore, nello stesso modo causa ed effetto di un’assenza di alternanza politica che vede da oltre centosessant’anni la destra al potere.
Seconda sessione: i soggetti della partecipazione
Ad aprire la seconda sessione della prima giornata di studio è Daniele Donati (caporedattore della sezione norme di Labsus, professore all’università di Bologna e partecipante al Prin) con una relazione intitolata “Modello e soggetti delle pratiche partecipative tra cittadinanza, interessi e rappresentatività”.
Il suo intervento inizia delineando quello che è o che nel corso del suo sviluppo è diventato, l’obiettivo del Prin sulla democrazia partecipativa e deliberativa, ovvero, quello di riportare delle pratiche, in alcuni casi anche già ben consolidate, a delle teorie e a delle regole che invece ancora mancano.
Gli elementi da prendere in considerazione in merito al tema della partecipazione sono essenzialmente tre:
- i soggetti coinvolti o da coinvolgere;
- il procedimento da seguire;
- gli esiti
Esistono inoltre alcuni presupposti senza i quali non è possibile pensare che la partecipazione possa prendere il volo. In particolare la consapevolezza e la realizzazione da parte della pubblica amministrazione di non essere autosufficiente, la scelta della differenziazione al posto dell’uniformità, o ancora, l’adozione del modello dell’amministrazione per risultato.
Ci troviamo in un momento storico in cui i cittadini sono interessati a partecipare non più soltanto alla fase decisionale discendente caratteristica del modello rappresentativo ma anche nella fase ascendente nella quale essi stessi collaborano con l’amministrazione, la integrano e partecipano alla decisione finale assumendo un atteggiamento non più soltanto oppositivo ma collaborativo e propositivo.
Nuove forme di aggregazione e di partecipazione si rendono necessarie in seguito alla crisi di quelle tradizionali: i partiti e i sindacati.
I ruoli di queste due organizzazioni, rispettivamente, quello di semplificare le differenze della società traducendo gli interessi in proposte politiche caratteristico da sempre dei partiti, e quello di raccogliere sotto un’unica bandiera una determinata categoria caratteristico invece dei sindacati, si sono nel tempo invertiti lasciando orfani ruoli e interessi.
La Costituzione menziona e tutela sindacati e partiti perché allora c’erano solo quelli: adesso sono cambiati i modi e gli interlocutori, ma le esigenze rimangono sempre le stesse.
Gli ostacoli alla partecipazione sono tanti come per esempio la questione dei tempi: in una società dominata da fenomeno del sondagismo per cui la gente viene stimolata nel fornire risposte immediate a problemi che invece richiedono un’attenta considerazione, ci si disabitua ai lunghi tempi della riflessione che caratterizzano i processi partecipativi privilegiando quelli rappresentativi sicuramente più immediati e circoscritti temporalmente.
Altri problemi sono quelli della rappresentatività nella partecipazione, ovvero “chi rappresenta chi?” e quello non meno importante della differenza tra le associazioni e i singoli individui.
Ma le soluzioni non mancano.
Innanzitutto bisognerebbe iniziare a fissare dei principi fondamentali dai quali partire come per esempio la libertà, l’uguaglianza, il dialogo e la trasparenza; poi da un punto di vista giuridico arrivare ad una legislazione sull’associazionismo e fissare i criteri per la convocazione della partecipazione fissandone i livelli minimi.
Partecipazione e comunicazione: un rapporto strumentale
La seconda relazione è di Filippo Ozzola ( caporedattore della sezione “casi ed esperienze” di Labsus, partecipante al Prin e consulente presso l’università di Bologna) che si occupa di “Partecipazione, asimmetrie informative e comunicazione pubblica”.
I momenti in cui si esplica la partecipazione possono essere considerati come una sorta di costruzioni sociali spesso inedite che vedono alternarsi soggetti diversi che per dare effettività al processo partecipativo devono riconoscersi e legittimarsi vicendevolmente.
Situazioni di questo tipo non possono non coinvolgere i processi comunicativi che sono gli unici a poter garantire quella diffusione e condivisione di codici, competenze e strumenti interpretativi necessari ad una partecipazione di qualità che coinvolga attori “simmetrici” riguardo alle informazioni possedute.
E’ proprio in questo senso che la comunicazione si pone in un rapporto strumentale nei confronti della partecipazione riducendo il divario di competenze tra i diversi attori, quelli privilegiati rappresentati dall’amministrazione e i cittadini comuni, ma anche tra cittadini e associazioni o tra cittadini e cittadini, insomma, tra attori sempre diversi e diversamente competenti.
La comunicazione diventa tanto più importante in un momento in cui grazie alle nuove tecnologie, le fonti informative si moltiplicano ma non si moltiplicano gli oggetti tematici e si diffonde un pericoloso appiattimento dei temi.
Una proposta più integrata e consapevole riguardo alle politiche partecipative non può tener conto quindi del rapporto che intercorre tra le dinamiche di partecipazione, informazione e comunicazione pubblica.
In particolare si dovrebbe pensare ad una vera e propria figura professionale che favorisca i processi comunicativi in tali dinamiche e che metta in campo le proprie competenze per lo sviluppo di metodi comunicativi e di interazione sempre più avanzati.
Due sono le regioni che si sono mosse verso questa direzione: la Toscana, che mettendo a punto la regolazione della partecipazione, ha previsto un momento formativo che serva agli attori per comprendere appieno il proprio ruolo, e l’Emilia Romagna con una proposta però un po’ più timida che non prevede una figura professionale.
Un punto di vista civico
L’intervento successivo è di Vittorio Ferla, esponente di Cittadinanzattiva, la nota associazione che quotidianamente mette in campo i principi di sussidiarietà orizzontale e di partecipazione oggetto di questo convegno.
Le organizzazioni autonome dei cittadini, dice Ferla, sono create e gestite dai cittadini per il miglioramento della vita democratica e si sviluppano in diverse forme.
La legislazione su questo tipo di organizzazioni manca di criteri generali assumendo una forma a canne d’organo che vede la normazione sulle singole materie.
A questo punto il relatore fa riferimento all’argomento principe delle giornate di studio, ovvero, la democrazia partecipativa paragonandola con l’attività di cittadinanzattiva ed evidenziandone le differenze: le decisioni istituzionali, gli output e la resistenza del paradigma bipolare per la prima e l’autorganizzazione, l’azione, gli outcome e la network governance per l’altra.
Esistono due modelli di sussidiarietà: uno è di tipo corporativo che a sua volta può essere caratterizzato da un approccio sindacale che premia l’associazione in quanto tale e non perché si occupa di interessi generali; l’altro modello, invece, è quello più conforme al dettato costituzionale ed è quello di carattere prettamente civico che vede le associazioni o i singoli cittadini impegnarsi per la tutela dei beni collettivi o per l’empawerment, ovvero, per il rafforzamento dell’attività amministrativa in generale.
Nella realizzazione del principio costituzionale in esame il ruolo delle istituzioni risulta essere fondamentale racchiudendosi in quel “favoriscono” che ad esse si riferisce nel noto ultimo comma dell’articolo 118 e che apre gli spiragli più diversi.
Terza sessione: partecipazione, controllo e garanzie
Conclusasi brillantemente la prima parte (e la prima giornata) del convegno, ci si prepara ad affrontare altri importanti temi che il dibattito intellettuale sulla democrazia partecipativa porta con sé e ad analizzare altri casi che ad essa fanno riferimento e che provengono da alcune regioni italiane ma anche dal resto dell’Europa.
La prima relazione è di Fabio Giglioni ( Caporedattore della sezione “giurisprudenza” di Labsus, professore alla Sapienza di Roma e partecipante al Prin) e affronta il tema dell’ “Attività di controllo e partecipazione dei privati”.
Esistono cinque formule di controllo “partecipato” che vedono coinvolti i privati nelle funzioni, appunto, di controllo e valutazione:
- Quella in cui i cittadini sono chiamati a valutare servizi e attività e che vanno dalla semplice rilevazione di gradimento che presuppone in un certo senso una relazione di tipo servente, fino ad arrivare all’audit civico in cui si realizza un confronto di dati tra cittadini e operatori.
- Quella in cui il coinvolgimento del cittadino avviene nella forma classica della partecipazione al procedimento amministrativo nell’ambito dell’esercizio delle funzioni di certezza: La pubblica amministrazione può nello specifico accertare delle situazioni che poi saranno alla base della sua decisione in quella che è un’azione endoprocedimentale, oppure, chiedere la consulenza tecnica dei cittadini esperti in un procedimento interno.
- Quella caratterizzata da una responsabilizzazione dei privati e che vede la sua massima espressione nelle autocertificazioni attraverso le quali è il controllato che si assume tutte le responsabilità. La legge n. 133 del 28 estende le certificazioni private per esigenze ambientali o norme europee basandosi sul pregiudizio secondo il quale i privati saprebbero controllare meglio perché certificare il falso significherebbe distorcere l’andamento del mercato.
- Quella in cui il controllo è mediato dalla via giudiziaria attraverso un ampliamento delle possibilità da parte dei cittadini di accedere alla giustizia e di avvalersi di strumenti di controllo effettivo sul potere amministrativo.
- Quella che pur essendo di natura agiuridica riesce comunque a influenzare i titolari della funzione di certezza.
Non in tutti i casi la partecipazione dei privati alle funzioni di controllo, di certezza hanno dignità giuridica dal punto di vista valutativo, ma grazie all’affermazione del principio di sussidiarietà si aprono nuove frontiere all’affidamento sociale di tali importanti funzioni.
Il controllo come garanzia della partecipazione
A prendere la parola a questo punto è Renato Cameli della regione Lazio che pone l’attenzione sugli strumenti che l’amministrazione e le istituzioni hanno per garantire e incentivare una corretta partecipazione dei cittadini ma che molto spesso non vengono utilizzati o utilizzati male.
Cameli fa riferimento per esempio al fatto che in un momento di crisi dello stato sociale, la Corte dei Conti potrebbe mettere in evidenza le carenze del sistema di federalismo a carattere competitivo e favorire la partecipazione dei cittadini.
C’è poi la figura del difensore civico che non è utilizzata al massimo delle sue potenzialità e come un vero e proprio elemento di ponte, ma semplicemente in circostanze circoscritte. in particolare il difensore civico non dovrebbe avere solo un ruolo difensivo ma anche “d’attacco” nel senso che dovrebbe farsi promotore dei rapporti di consultazione con le associazioni e con i cittadini e di protocolli d’intesa.
Nello scenario delle forme e degli istituti partecipativi il ruolo del controllo giurisprudenziale assume un carattere fondamentale che necessita di alcune precondizioni come per esempio il riconoscimento del diritto di partecipazione nei procedimenti classici e l’avvio di consultazioni nelle quali tutti siano messi in condizione di partecipare.
Il sindacato dei giudici su quelle attività della pubblica amministrazione che mettono in campo metodi partecipativi, rappresenta sicuramente un bene rappresentando una garanzia ma potrebbe diventare una sorta di deterrente per la pubblica amministrazione che voglia intraprendere un tale percorso innovativo.
La garanzia giurisprudenziale dovrebbe agire anche su altro versante, quello dell’eticità dei soggetti che partecipano, impedendo per esempio la presenza nei processi partecipativi di individui o associazioni che hanno problemi con la giustizia.
Debat public: una discussione non “deliberativa”
Un esempio di democrazia partecipativa è quello che si svolge ormai da tempo in Francia e consiste nel dibattito pubblico in materia ambientale organizzato da un’apposita Commissione in qualità di autorità indipendente e commissionato da chiunque, anche dallo stesso governo, sia interessato alla realizzazione di opere che hanno un impatto ambientale.
Il caso viene presentato proprio da un membro della Commissione per il dibattito pubblico, Jean Francois Beraud che nella sua relazione chiarisce alcuni punti su questo istituto di democrazia partecipativa “atipico”.
Nello specifico ci tiene a sottolineare che non è la Commissione a decidere di realizzare un dibattito pubblico e soprattutto che l’esito del dibattito non si trasforma sic et simpliciter in una decisione, che riamane sempre e comunque nelle mani del committente che valuta l’accettazione o il rifiuto sociale da parte dei cittadini del progetto presentato ma non è obbligato a tenerne conto.
Il compito della Commissione è “semplicemente” quello di organizzare il dialogo nei tempi e nei modi di svolgimento: in particolare deve far sì che i partecipanti abbiano a disposizione un dossier del caso con tutte le informazioni necessarie.
I principi che si seguono sono essenzialmente tre:
- la trasparenza delle informazioni;
- l’equivalenza degli interventi;
- l’argomentazione dei pareri in mancanza della quale non sono presi in considerazione.
I problemi non mancano e riguardano da un lato i tempi e i costi del dibattito pubblico, dall’altro il corretto svolgimento: queste le sfide ancora da affrrontare.
La sfida democratica in Centroamerica
Perfino nei Paesi con le democrazie più stabili e affermate, la democrazia partecipativa stenta a realizzarsi appieno: la situazione risulta ovviamente aggravata in quei Paesi in cui il processo di pacificazione e di democratizzazione risulta essere più recente e in cui l’alto tasso di povertà non aiuta.
Melissa Zamora Monge (Investigadora Asociada della Costa Rica) espone nello specifico i problemi relativi alla partecipazione in America centrale, partecipazione che risulta essere di due tipi: formale e informale.
Quanto alla prima tipologia, si possono riscontrare quattro processi o istituti differenti:
- quelli promossi dalla comunità internazionale;
- quelli promossi dai governi centrali;ù
- quelli promossi dai governi locali;
- quelli promossi dalla società civile attraverso le associazioni.
Tutti e quattro risultano però spesso poco trasparenti e caratterizzati da una bassa e iniqua inclusività.
Più trasparenti e quindi più utili ai fini della realizzazione di una partecipazione di qualità, sono invece gli istituti partecipativi di tipo informale che nascono e si sviluppano spontaneamente e che in quei Paesi contribuiscono sempre più spesso alla crescita politica e civile.
Partecipazione e legislazione regionale: un binomio strategico
Nicola Biancucci ( Consiglio regionale dell’Umbria) intitola così la sua relazione che risulta essere l’ultima in programma prima della tavola rotonda e delle conclusioni.
L’intervento è iniziato con la costatazione dell’importanza strategica delle assemblee legislative regionali in merito alla implementazione dei processi partecipativi grazie alla loro potestà legislativa e alle funzioni di indirizzo e controllo.
Due sono i piani su cui si sviluppa il ruolo regionale in tale ambito: quello delle prassi e quello delle norme.
Quanto alle prassi, oltre agli ormai consolidati strumenti partecipativi quali la consultazione, l’ascolto o l’indagine conoscitiva, negli ultimi anni si sono aggiunte delle nuove esperienze di e-democracy e di educazione alla cittadinanza.
In particolare, avendo riconosciuto il ruolo strategico della comunicazione e della trasparenza informativa, è stato istituito un gruppo nazionale ad hoc della Conferenza delle assemblee legislative regionali che si occupa proprio di questi temi e che ha portato alla costituzione di banche dati sempre più aggiornate e accessibili e, in alcune regioni a sistemi di consultazione on-line.
Per quanto riguarda invece la legislazione regionale, Biancucci riporta quattro esempi significativi:
- la legge n. 69/27 della Regione Toscana che è stata la prima legge organica in tea di partecipazione;
- la legge n. 4/26 della Regione Lazio che ha introdotto un processo partecipato obbligatorio nella formazione della legge di bilancio;
- la legge n. 14/21 della Regione Umbria che istituisce la consultazione obbligatoria su tutti gli atti all’esame delle commissioni consiliari, a meno che la maggioranza assoluta dei membri delle stesse commissioni, voti l’esclusione dell’atto dalla consultazione.
- la legge n. 3/21 della Regione Emilia Romagna che attribuisce la facoltà di iniziativa per l’avvio di un processo partecipato non soltanto all’ente, ma indistintamente, ai cittadini singoli o associati, alla Giunta, all’Assemblea legislativa, agli enti locali e alle singole circoscrizioni. Prevede, inoltre, la nomina di un tecnico di garanzia in materia di partecipazione e, alla fine del processo partecipativo, la stesura di un documento di proposta partecipata di cui le autorità decisionali si impegnano a tener conto nelle loro deliberazioni, motivando esplicitamente un eventuale discostamento.
I modelli che funzionano
Tra gli interventi che si sono susseguiti al termine delle relazioni, due sono stati di particolare interesse per quanto riguarda la concretezza, rispettivamente, del caso e del modello partecipativo presentato.
Nello specifico Giulia Murolo del Consiglio regionale della Puglia ha presentato un caso di accountability realizzato dalla Regione riguardante la gestione dell’apparato biblio-documentale proprio del Consiglio regionale della Puglia chiamato Teca del Mediterraneo.
Soltanto l’implementazione di procedure sistematiche di accountability, che significa essenzialmente “rendere conto”, si dà robustezza ed effettività al principio della partecipazione dei cittadini.
Andrea Margheri, invece, del Consiglio della Provincia autonoma di Trento, sostiene l’importanza di delineare un vero e proprio modello partecipativo, da utilizzare in particolare all’interno dei processi legislativi dei Consigli regionali, che possa garantire efficacia ed efficienza utilizzando schemi cognitivi precisi per individuare e classificare gli stakeholder rilevanti e adottando forme di coinvolgimento diverse a seconda dei casi.
Tavola rotonda: critiche e proposte dei giuristi
Protagonisti dell’ultima parte del Convegno, prima della relazione conclusiva del coordinatore generale del Prin Gregorio Arena, sono stati alcuni giuristi di grande rilievo nazionale che hanno espresso impressioni, idee, proposte, dubbi e perplessità riguardo ai temi affrontati e ampiamente dibattuti nel corso delle due giornate di studio.
Nello specifico Umberto Allegretti e Paolo Caretti dell’università di Firenze, Vincenzo Atripaldi, Gaetano Azzariti e Giuseppe Ugo Rescigno dell’università Sapienza di Roma e Fabrizio Bracco, presidente del Consiglio regionale dell’Umbria.
Gli interventi, che si sono svolti sottoforma di tavola rotonda, sono stati coordinati magistralmente da Francesco Merloni dell’università di Perugia.
E’ stato proprio Merloni ad aprire il dibattito sottolineando le criticità pervenute da più parti riguardanti la scelta di inserire nel nome del Prin la parola “federalismo”, che farebbe pensare ad un’interlocuzione con territori ed enti locali più che a quella con i cittadini.
La partecipazione, dice Merloni, è fondamentale e va allargata, ma deve comunque servire alla politica stando però attenti ad evitare la consolidazione di interessi forti a discapito della partecipazione del cittadino medio.
Umberto Allegretti, che tra le altre cose ha da poco pubblicato un libro dal titolo “Democrazia partecipativa”, interviene parlando innanzitutto del fondamento costituzionale della democrazia partecipativa che va ricercato nello specifico nel secondo e nel terzo articolo che affermano rispettivamente i principi di solidarietà e uguaglianza sostanziale.
Per questa sua origine autorevole, il principio di partecipazione risulterebbe auto applicativo, non necessitando quindi di leggi che lo rendano effettivo.
La presenza di leggi a riguardo, infatti, in molti casi non ha rappresentato un elemento discriminante nella realizzazione di processi partecipativi: a Genova, senza una legge, è stato promosso un dibattito pubblico su una penetrazione stradale che avrebbe peggiorato la situazione già difficile di una città distrutta dalle autostrade, mentre a Firenze, con la presenza di una legge specifica sul dibattito pubblico, non se n’è mai realizzato uno. Più della giuridizzazione, nel campo della partecipazione contano identità e cultura, ma ben vengano quelle leggi che mettono a disposizione risorse.
Tre le cose su cui riflettere:
- il dibattito pubblico per le grandi opere;
- il metodo del sorteggio per la partecipazione democratica;
- la lotta al potere di ordinanza come massima opposizione alla democrazia partecipativa.
Anche Vincenzo Atripaldi parte dall’analisi della Costituzione e dal fatto che non bisogna limitarsi a leggerla ma bisogna leggerla e capirla alla luce del contesto storico, sociale e politico nel quale è stata scritta.
Nella definizione del principio di uguaglianza sostanziale che viene affermato nel noto articolo tre, al secondo comma, l’idea dei Costituenti, era infatti quella della partecipazione non soltanto come principio democratico, ma nell’ambito di un nuovo modello di società, che avrebbe garantito e potenziato la possibilità di scelta da parte del cittadino.
I diritti di libertà come diritti di partecipazione: è questo il messaggio che i Costituenti hanno voluto affermare e che bisogna recuperare.
Tre i punti di partenza:
- la ricerca di modelli istituzionali che precedano la partecipazione;
- il diritto allo studio funzionalizzato alla conoscenza degli istituti democratici;
- L’educazione civica.
Gaetano Azzariti parla dell’importanza della partecipazione, ma mette in nello stesso tempo in evidenza una sorta di gap informativo e la costatazione di portare avanti la riflessione sulla democrazia partecipativa in un ambiente che risulta essere poco favorevole.
Le ragioni di questa resistenza sono essenzialmente di carattere culturale.
Il principio di partecipazione era maggiormente garantito dalla presenza di partiti e sindacati forti che rappresentavano efficacemente la società aiutati da un sistema elettorale di tipo proporzionale. La crisi della partecipazione è iniziata da quando i partiti hanno perso quel carattere rappresentativo che li caratterizzava per chiudersi nei palazzi.
Con la riforma costituzionale del 21 si è avuta la possibilità di sciogliere i nodi e le ambiguità che da sempre hanno circondato il tema della democrazia partecipativa, ma quella possibilità è risultata essere un’occasione non colta.
L’ambiguità è rimasta: l’articolo 118, infatti, oltre a prestarsi ad un’interpretazione propositiva che vede la garanzia della partecipazione dei cittadini allo svolgimento delle attività di interesse generale, potrebbe prestarsi anche ad una interpretazione regressiva a favore delle esternalizzazioni e delle liberalizzazioni dettate dal mercato nell’erogazione dei servizi pubblici.
Azzariti non vuole negare l’esistenza di un bisogno di partecipazione ma nello stesso tempo vuole mettere in evidenza che, accanto alle potenzialità che la partecipazione porta con sé, esiste anche il rischio che essa diventi strumento di un populismo imperante.
La partecipazione politica è valida solo nei termini costituzionali e quindi solo nell’interesse generale della Nazione e non negli interessi di parte o di portafoglio.
Fabrizio Bracco oltre ad essere un giurista è il presidente del Consiglio regionale della Regione Umbria ed è in questa veste che parla della legge sulla partecipazione approvata in quella regione che però nonostante sia formalmente molto avanzata, presenta dei dati di attuazione ancora insoddisfacenti.
La partecipazione è connaturata alla democrazia e può essere esercitata dal singolo cittadino debitamente informato anche se non aderisce formalmente ad alcun partito.
Paolo Caretti pone la questione della democrazia partecipativa sia sul piano del metodo che sul quello del merito. In particolare dal punto di vista del metodo, Caretti parla della necessità di tener ben distinte alcune cose nell’ampia gamma di fenomeni inerenti alla partecipazione e, nello specifico, il concetto di federalismo e di una teoria generale della partecipazione.
Bisogna abbandonare la retorica rivolgendo la riflessione e lo studio verso quelle pratiche partecipative che si sono già realizzate, analizzando e parlando di ciò che è, e non di ciò che dovrebbe essere.
Dal punto di vista del merito, va considerato che la democrazia partecipativa non va considerata in alternativa agli istituti democratici classici, ma un’utile integrazione della democrazia rappresentativa: le forme di partecipazione hanno diritto di cittadinanza solo se integrative e non sostitutive della democrazia rappresentativa.
Il rischio è quello che i soggetti che partecipano ai processi partecipativi siano coloro che sono direttamente coinvolti e che partecipano esclusivamente per difendere interessi di categoria.
Pratiche di questo tipo danno un incentivo alla corporatizzazione della società coperta dall’ombrello virtuoso della partecipazione e della sussidiarietà. Spesso sono gli stessi operatori economici a scrivere le regole che proprio loro dovranno rispettare.
Un antidoto potrebbe essere quello di rinunciare a relegare ad un passato museale partiti e sindacati sostituendoli tout court con le associazioni di cittadini
Anche Giuseppe Ugo Rescigno sulla linea di pensiero di chi l’ha preceduto non crede nella possibilità di arrivare alla definizione di una teoria generale della partecipazione, ma ad uno studio delle singole situazioni.
Il principio di partecipazione va analizzato in tutti i suoi aspetti, come una sorta di arco che parte da un divieto di partecipazione che a volte risulta essere necessario, per esempio dei processi giudiziari, arrivando alla promozione della partecipazione, passando per l’affermazione dei diritti di libertà.
Il tema della partecipazione irrompe con prepotenza nel dibattito culturale e accademico in un momento politico caratterizzato da un parlamento grottesco che approva senza discutere ricorrendo sempre più frequentemente ai decreti legge, da un potere che si nasconde celando tra le altre cose i criteri di selezione dei candidati, da partiti che non sono più rappresentativi e che hanno perso di credibilità.
Davanti ad uno scenario del genere però, la società non rimane immobile e dimostra una forte capacità di reagire come per esempio è successo in Puglia con le primarie del partito democratico volute dai cittadini nonostante l’opposizione dei vertici del partito stesso e che hanno visto un’altissima partecipazione popolare.
Alcune proposte:
- l’introduzione delle primarie attraverso una legge come avviene negli Stati Uniti;
- il recupero di alcuni istituti di democrazia partecipativa come per esempio l’iniziativa popolare, attraverso il referendum automatico in caso di non risposta da parte delle Camere ;
- •la motivazione obbligatoria delle leggi perché nel diritto la forma è sostsnza.
Conclusioni: tre democrazie a confronto
E’ il coordinatore nazionale del Prin Gregorio Arena a fare le osservazioni conclusive.
Non è certo facile per il presidente di Labsus tirare le fila di due giornate di studio così intense e piene di argomenti e punti di vista differenti, ma Arena lo fa nel miglior modo possibile, ovvero affrontando il tema della partecipazione dai tre punti di vista che gli sono più familiari: quello di coordinatore del Prin, quello di cittadino e professore universitario e quello di giurista.
Quanto al Prin Arena non può che esprimere la soddisfazione del lavoro svolto finora da tutte le unità operative e soffermarsi sulla scelta del tema e del titolo “Federalismo come metodo di governo. Le regole della democrazia partecipativa e deliberativa”.
Nello specifico il termine “federalismo” è stato utilizzato nella sua accezione classica, nel senso americano di rapporto tra Stato e cittadini.
L’idea di occuparsi di democrazia partecipativa e deliberativa nasce prima all’interno di Labsus, come la seconda parte della mela con la prima parte rappresentata dalla sussidiarietà orizzontale e nello specifico dall’impegno civico dei cittadini.
In qualità di cittadino e di professore universitario Arena non può non rilevare nel contesto storico attuale un pericoloso distacco e disprezzo degli istituti democratici, ma è proprio nei momenti di crisi politica e culturale che l’università è chiamata a svolgere più che mai il suo ruolo senza farsi scoraggiare dal clima ostile della quotidianità.
Come giurista, infine, il presidente di Labsus fa alcune considerazioni in merito ai tre tipi di democrazia presi in considerazione nel dibattito, ai loro fondamenti costituzionali e al futuro di questi tre istituti che nello specifico sono: la democrazia rappresentativa, la democrazia partecipativa e la democrazia deliberativa.
Il punto di partenza è la crisi della democrazia rappresentativa dalla quale si può uscire, facendo ricorso al populismo per cui chi detiene il potere agisce in nome del popolo ma solo privare quel popolo del potere decisionale che gli spetta, oppure, integrando la democrazia rappresentativa in crisi con gli altri due tipi di “democrazia”.
Queste tre forme di democrazia presentano delle sostanziali differenze se utilizziamo come discriminante il concetto di sovranità popolare. Nella democrazia rappresentativa, infatti, la sovranità viene delegata attraverso il voto, in quella partecipativa riamane delegata ma viene condivisa la fase istruttoria del processo decisionale, mentre è solo nella democrazia deliberativa che i cittadini si riprendono la sovranità esercitandola direttamente.
E’ quest’ultimo istituto, quindi, che va analizzato con maggiore attenzione e che trova il suo fondamento oltre che nell’articolo 118, anche nell’articolo 21 della Costituzione che garantisce e tutela il libero pensiero e il libero confronto di opinioni.
Il cuore della democrazia deliberativa, infatti, è costituito proprio dalla disponibilità a cambiare punto di vista, dal confronto di opinioni disposte a cambiare e non già fissate come avviene invece nella democrazia rappresentativa e in parte anche in quella partecipativa.
Tre sono le regole della democrazia deliberativa:
- garantire il libero scambio di opinioni sulla base di informazioni chaire e trasparenti;
- garantire procedure che facciano partecipare realmente i cittadini alla discussione e alla decisione;
- garantire il rispetto da parte dei pubblici poteri di ciò che emerge dal processo deliberativo abbandonando la riluttanza alla cessione della sovranità dopo essere stati legittimati dal voto.
Democrazia rappresentativa, partecipativa e deliberativa sono tre democrazie tra di loro complementari e non configgenti, tre metodi per giungere a decisioni su temi generali, ma la sfida è quella di estendere la semplicità caratteristica degli strumenti di democrazia rappresentativa, a quelli delle altre due tipologie.
E’ innegabile il fatto che molta gente preferisce delegare invece che partecipare: comporta meno impegno, non attribuisce responsabilità dirette e non obbliga ad esporsi.
E’ innegabile pure il fatto che partecipare costa fatica ma è anche innegabile che per molti quella fatica non rappresenta un ostacolo ma una sfida, una sfida a cui si decide di partecipare per assecondare la voglia di contare e di dire la propria.
E’ proprio a loro che bisogna dare gli strumenti che favoriscano e realizzino il principio di partecipazione, creando l’antidoto al populismo e alla trasformazione dei cittadini in pubblico televisivo.