Grande attesa per la risoluzione delle Nazioni unite

In tutto il mondo il concetto di acqua come bene comune è stato sostituito dalla corsa alla massimizzazione dei profitti a discapito delle popolazioni civili

Quando, nel 1948 le Nazioni unite approvarono la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, era impensabile che un giorno il diritto all’acqua potesse diventare una priorità, eppure, dopo decenni di sfruttamento insostenibile e di politiche pubbliche del tutto inadeguate, l’acqua oggi è diventata un bene così prezioso da scatenare una mobilitazione generale.

Il sostegno di Gorbaciov

In un recente articolo apparso sul New York Times, l’ex presidente dell’Unione sovietica, Mikhail Gorbaciov, sostenendo come l’affermazione di un diritto umano all’acqua sia ormai una necessità, ha sottolineato che secondo le stime delle Nazioni unite, 9 milioni di persone nel mondo vivono senza acqua pulita e 2,6 miliardi senza servizi igienici adeguati. L’acqua è al centro di una vera e propria catastrofe umanitaria, da elemento di vita si è trasformata, o per meglio dire, è stata trasformata, nel killer perfetto del ventunesimo secolo. Basti pensare che circa 4 bambini muoiono ogni giorno per malattie legate all’acqua. Fermare questo massacro è un dovere di tutti, e l’affermazione di questa risoluzione non è che un primo passo in questa direzione.

Il diritto internazionale

Nel contesto del diritto internazionale il diritto all’acqua è già stato richiamato in maniera implicita dai Patti delle nazioni unite sui diritti civili e politici e sui diritti economici sociali e culturali del 1966 in riferimento al diritto alla vita, alla salute e allo sviluppo. Esplicita, è invece, la sua affermazione nella Convenzione sui diritti dell’infanzia (articolo 24 comma 2 lettera c) e nella Convenzione contro ogni forma di discriminazione nei confronti della donna (articolo 14, paragrafo 2 comma h). E’ necessario però che questo diritto venga recepito anche nelle legislazioni nazionali, non a caso la recente costituzione della Bolivia, promotrice della risoluzione, fa proprio questo principio garantendolo esplicitamente (articoli 16 e 2).

La posizione degli stati più industrializzati

Non tutti gli stati sembrano però muoversi in questa direzione, tant’è che la risoluzione dell’assemblea delle nazioni unite, sarà osteggiata dagli Stati Uniti, dal Canada e dalla Gran Bretagna. Non è ancora chiara la posizione che assumeranno i Paesi europei, se da un lato infatti l’Unione europea già nel marzo scorso ha affermato il diritto all’acqua potabile, dall’altro diversi stati, tra cui l’Italia con il decreto Ronchi, stanno provvedendo ad una privatizzazione dell’acqua e della sua gestione.

L’oro blu: bene pubblico o bene economico?

La contraddizione nasce proprio qui, dalla trasformazione di questi ultimi anni del concetto stesso di acqua che, invece di affermarsi come bene comune, un bene pubblico che tutti dovremmo tutelare data la rilevanza che questa ha nella nostre vite, è divenuta una merce qualsiasi, un bene economico nelle mani delle multinazionali e delle società di gestione dei servizi idrici. L’ ”oro blu”, come può purtroppo definirsi l’acqua nel contesto attuale, è una fonte di guadagni senza fine e come tale viene gestita dagli istituti che dovrebbero garantire una governance globale come il fondo monetario internazionale e l’organizzazione mondiale per il commercio che condizionano gli aiuti economici alla privatizzazione dell’acqua nei Paesi in via di sviluppo. Dal controllo sulle acque minerali, alla gestione degli acquedotti, dalla costruzione di dighe alla privatizzazione dei bacini idrici, in tutto il mondo il concetto di acqua come bene comune è stato sostituito dalla corsa alla massimizzazione dei profitti a discapito delle popolazioni civili. Gli stessi stati, che avrebbero dovuto fare della cooperazione il punto cruciale delle politiche legate all’acqua, sono pronti a scontrarsi per lo sfruttamento di questa risorsa.

La guerra dell’acqua

L’ultima scintilla, in tal senso è quella tra India e Pakistan per la gestione delle risorse idriche. Il governo indiano vorrebbe, infatti, deviare il corso del fiume Kishenganga prima che varchi il confine, per alimentare una centrale idroelettrica di prossima costruzione. Il governo di Islamabad, dal canto suo, non può assolutamente permettere che ciò avvenga, poiché un progetto del tutto simile che prevede lo sfruttamento di quelle stesse acque per una futura centrale idroelettrica in territorio pakistano è già stato appaltato ad un consorzio di società cinesi. Senza contare che l’opera di deforestazione della zona di confine messa in atto dall’India per la costruzione di strade, impianti e dighe causerà sicuramente un calo dell’approvvigionamento idrico del Pakistan con conseguenze devastanti a livello energetico, agricolo e politico in una società che già di per sé si configura come una bomba ad orologeria con le sue divisioni etnico-religiose.

Una battaglia che parte dal basso

É chiaro che il problema dell’acqua è universale, riguarda diversi aspetti della nostre vite, dal tema dei diritti umani, ai cambiamenti climatici, alla pace internazionale. Sono necessarie nuove policy che nascano dalla collaborazione tra governi, società civile, industriali e comunità scientifiche. Non è un caso che la battaglia per l’acqua sia partita dalla società civile per giungere fino alle Nazione unite, è l’esempio di una riappropriazione dal basso dei beni comuni. Ci sono gli strumenti, ci sono le capacità, c’è un forte movimento popolare che preme per la realizzazione di un concetto di acqua come bene comune (guarda il video spot per la campagna water access through empowerment of rights), un bene che non può essere oggetto di mercificazione. A questo punto non resta che aspettare, il 28 luglio, la risposta della politica.