Esiste un rischio banlieue in Italia?

Sussidiarietà  e modelli locali di integrazione per evitare la deriva francese. La prescrizione degli studiosi

Un team di esperti, coordinati dal professor Vincenzo Cesareo, ha studiato le periferie urbane italiane, misurando il livello di malessere e disagio sociale. Si è cercato di capire se questi elementi possano essere catalizzatori di fenomeni simili a quelli delle banlieues francesi e come evitare che si tramutino in incubatori dei virus mixofobia e xenofobia. Sei realtà territoriali italiane sono state monitorate: due zone di Milano, due quartieri di Roma (Torpignattara e Tullio), una in provincia di Napoli, Acerra e Chieri in provincia di Torino. Spesso la presenza di immigrati tende a far emergere situazioni di disagio sociale latente e l’immigrazione si configura come la cartina di tornasole di difficoltà e malesseri già esistenti nelle periferie italiane. E’ da queste premesse che la ricerca parte, non limitandosi a fotografare lo stato delle cose ma proponendo la soluzione per scongiurare un rischio banlieue.

Nord e Sud allo specchio

Dalla ricerca è emerso che nelle nostre periferie si registra una bassa conflittualità manifesta ma un alto potenziale di rischio (vedi la sintesi dello studio in allegato). Questo significa che anche da un singolo avvenimento possono derivare manifestazioni violente come quelle di via Padova a Milano o il caso di Rosarno. Tra le periferie del centro nord e del centro sud emergono, poi, delle differenze: le periferie del nord sembrano affrontare meglio il fenomeno immigrazione, con una maggiore capacità di assorbimento legata però all’andamento del mercato del lavoro. Al sud, invece, esiste un miglior inserimento nel tessuto sociale grazie ad una fitta rete solidaristica anche se, proprio al sud, si concentrano le maggiori criticità. Povertà, disoccupazione e irregolarità sono come bombe ad orologeria. Il rischio non è solo quello della segregazione sociale ma anche quello della segregazione edilizia. Ossia il concentrarsi di soggetti maggiormente a rischio in determinate aree periferiche generando dei ghetti edilizi, abitativi. C’è un rapporto direttamente proporzionale tra degrado e conflittualità sociale.

Infine, “si evidenzia la difficoltà dei processi di integrazione delle nuove generazioni di immigrati (…) il disagio scolastico e la carente socializzazione dei minori stranieri sono segnali e cause di malessere che possono comportare gravi conseguenze per il futuro (…)”, chiarisce Cesareo. A ciò si aggiunge la mancanza di comunicazione tra genitori italiani e stranieri con il configurarsi del fenomeno della mixofobia: vale a dire la paura di persone etnicamente diverse. Una minaccia per la coesione sociale (a destra "Paesaggio urbano" 1927, Mario Sironi).

Periferie italiane e banlieue: differenze

“I principali fattori ritenuti causa di queste rivolte sono senz’altro buoni predittori di questo fenomeno: situazioni familiari disagiate, insuccesso scolastico, disoccupazione, bande giovanili, segregazione spaziale, condizioni di vita in agglomerati urbani come quelli delle banlieu, rivendicazione di una piena integrazione nella società francese pur nella preservazione delle radici culturali e religiose d’origine (…) Con riferimento alla Francia i tre fattori principali sono: il degrado sociale, la mancanza di prospettive e la scarsa attenzione da parte delle istituzioni”, spiega il professor Cesareo. Nelle nostre periferie sembra ancora lontana l’ipotesi di una deriva francese ma ciò non toglie che il disagio sociale possa acutizzarsi in mancanza di un idoneo intervento da parte delle istituzione ma anche dei cittadini. In Italia il degrado e l’immigrazione non sembrano ancora coincidere “gli immigrati vivono spesso nel degrado abitativo ma hanno un accesso al lavoro, seppur non raramente precario (…) La seconda generazione di immigrati, non ha ancora, in Italia le dimensioni che assume nella società francese e, di fatto sta cominciando a formarsi proprio in questi anni. Se quindi, almeno finora, non si possono assimilare le tensioni verificatesi nelle periferie urbane italiane a quelle delle banlieues francesi, non va però escluso che ciò possa avvenire nel futuro. Le criticità che la ricerca ha evidenziato, sono infatti tali da non essere sottovalutate”.

Ci sono tutti i podromi per diagnosticare il rischio di conflitti violenti, dunque (leggi l’intervento di Cesareo in occasione della presentazione dei risultati della ricerca in allegato – nella foto le banlieues francesi).

La soluzione è nella sussidiarietà

L’imperativo è rimuovere le criticità attraverso azioni concrete con la collaborazione di cittadini ed istituzioni. E’ necessario un processo di responsabilizzazione dei cittadini stessi perché diventino i custodi delle città e garantiscano la sicurezza delle periferie. I quartieri devono ritornare ad essere i luoghi della partecipazione, dell’inclusione sociale, devono essere “riferimenti identitari” per le popolazioni residenti e non dei “non luoghi” votati all’emarginazione sociale, ammonisce Cesareo. E’ il sentimento di appartenenza che bisogna recuperare. In questo ci aiuta la sussidiarietà. Non è un caso che una delle soluzioni proposte nella ricerca sia proprio la sussidiarietà orizzontale come antidoto ai virus xenofobia e mixofobia.

Nello specifico otto sono i passi da compiere per sfuggire alla deriva francese: 1) la “teoria delle finestre rotte”, il degrado genera degrado, cioè, è indicativa del fatto che è necessario agire nella direzione della riqualificazione urbana, 2) evitando l’affollamento abitativo, evitando la formazione di veri e propri ghetti: quartieri ricchi e poveri, ma puntare al mix sociale nelle varie aree urbane; 3) garantire servizi idonei alle necessità dei cittadini; 4) senza dimenticare la sicurezza del territorio che non deve limitarsi all’isolato intervento delle forze dell’ordine ma deve puntare al coinvolgimento degli abitanti stessi. E’ il principio di responsabilizzazione dei cittadini di cui si diceva. 5) L’osservanza delle regole, poi, deve diventare un “idem sentire” 6) e favorire una maggiore collaborazione e un miglior coordinamento tra le istituzioni per far sì che iniziative volte all’integrazione e buone pratiche siano conosciute e siano replicabili anche in altre aree.
Al punto sette il professore parla esplicitamente del principio di sussidiarietà orizzontale: “è auspicabile la promozione di forme di sussidiarietà orizzontale, la valorizzazione delle risorse presenti capillarmente sul territorio, spesso in grado di agire non solo nell’ambito socio-assistenziale ma anche in quello culturale, poiché operano soprattutto attraverso relazioni sociali informali e non solamente attraverso meccanismi istituzionali ufficiali”. Infine, al punto otto, si sottolinea l’urgenza di individuare aree a rischio mettendo in piedi dei veri e propri laboratori di intervento sociale per realizzare buone pratiche di integrazione e di sicurezza urbana.

Da tener presente, per di più, che non esiste un modello unico di integrazione sociale, un modello italiano, come ha ribadito il titolare del Viminale Roberto Maroni, in occasione della presentazione della ricerca; “la via è quella delle autonomie territoriali per poter permettere agli amministratori di poter intervenire direttamente” a seconda delle diverse realtà territoriali. La sussidiarietà è la soluzione.



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