La Convenzione dei migranti 20 anni dopo: una sfida ancora aperta

Lavoro migrante: ai benefici per i paesi ricchi devono corrispondere condizioni di vita e di lavoro dignitose per gli stranieri

Il 18 dicembre scorso si è celebrato il ventesimo anniversario della Convenzione dei Lavoratori Migranti, ratificata solamente da quarantaquattro Paesi, neanche uno dell’Unione Europea, neanche uno dei paesi storicamente di destinazione.
La scelta dei paesi più ricchi di non ratificare la Convenzione ne ridimensiona la portata e ne vanifica gli effetti. I paesi dell’America del Nord, dell’Europa, e i più sviluppati dell’Asia hanno deciso di non firmare la Carta, e quindi non essere vincolati agli obblighi di “riguardo allo status di migranti, rispetto dei loro diritti umani fondamentali, possibilità di accesso ad un grado minimo di protezione nel processo di migrazione”.

Le tre Convenzioni ILO

I paesi del centro Europa hanno ratificato le Convenzioni ILO n° 97 (Spagna, Francia, Gran Bretagna, Germania, Belgio, Paesi Bassi) o n° 143 (Svezia), o entrambe (Portogallo, Italia, Norvegia, Slovenia). La Convenzione sul lavoro dei migranti n° 97 è del 1949 e prevede un’uguaglianza di trattamento economico, assicurativo e sindacale tra lavoratori stranieri e nazionali. Venne integrata nel 1975 dalla Convenzione n° 143 sui Lavoratori migranti, che vincola ala protezione dei diritti umani basilari e prevede misure per combattere gli abusi ai danni dei migranti (clicca sull’immagine per leggere la mappa).

Ma è solo con la Convenzione Internazionale (ICRMW) del 199 che si introduce il concetto di status del migrante, che va difeso in virtù di questa condizione. “La preparazione, il reclutamento, la partenza, il transito, il soggiorno, il potenziale ritorno a casa e la reintegrazione nello stato ospitante”, sono tutti gli aspetti del lungo viaggio del migrante, che gli stati firmatari si impegnano a tutelare, garantendo il rispetto dei diritti umani dell’individuo.

L’inerzia degli Stati nazionali

Lo scarso supporto degli stati destinatari del lavoro migrante è sintomatico di una fase politica in cui gli stati più ricchi approfittano dei benefici delle migrazioni per le loro economie, senza alcuna intenzione di riconoscerne l’effettivo vantaggio e quindi negandone l’utilità, favorendo una politica di tensione tra i propri cittadini e gli stranieri e cavalcando la confusa e istintiva richiesta di “sicurezza”, invece di impegnarsi in una seria e lungimirante politica di integrazione e reciproca educazione culturale.

È noto a tutti che assecondare le paure dei propri elettori trova facili e immediati riscontri alle elezioni. Ed è altrettanto noto, se il passato ci insegna qualcosa, che è il modo più efficace per alimentare l’odio, spaccare il proprio paese e palesare la propria incompetenza.

Il rapporto dell’ILO

È solo di pochi giorni fa la pubblicazione di uno studio dell’Organizzazione internazionale del lavoro, che denuncia l’abbandono da parte dell’Unione europea e delle altre istituzioni internazionali di politiche di ammissione e rispetto del lavoro migrante, ciò che ha costretto i singoli Stati ad adottare proprie politiche in materia, totalmente inefficaci perché scoordinate, quando non pericolosamente lesive dei diritti dei migranti (sarebbe importante approfondire ciò che la firma italiana nei trattati con la Libia rende lecito nelle carceri del deserto, od anche nei Centri di Identificazione ed Espulsione sul nostro territorio).

I governi occidentali dovrebbero tenere a mente queste cifre emerse dallo studio: nell’area OSCE (Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa) “le migrazioni possono contribuire ad alleviare le future carenze di manodopera e competenze nei paesi ospitanti, ma non possono compensare totalmente l’invecchiamento della popolazione europea; sarebbe necessario un flusso costante di 13 milioni di immigrati l’anno per poter mantenere costante la percentuale fra il totale degli anziani (65 anni e oltre) e il numero delle persone in età lavorativa fino al 25”.

Il bene comune internazionale

La mancanza di una politica europea in questa materia, fa sì che i singoli provvedimenti nazionali scoraggino quel flusso di migranti necessario ad evitare il crollo del sistema pensionistico dei vari paesi europei.

Se anche dagli uffici delle Nazioni Unite parte il richiamo ad una politica unitaria europea in materia, al riconoscimento dei benefici che porta, e della sua assoluta necessità per gli Stati occidentali, ciò vuol dire che la “migrazione” è un bene che deve essere tutelato dalla collettività, perché i vantaggi che garantisce investono la collettività intera.

La “migrazione” e il “lavoro dei migranti” dovrebbero quindi essere riconosciuti come beni comuni internazionali, e come tali dovrebbero essere difesi e incoraggiati, perché si pongono come argine al crollo delle nascite nei paesi più ricchi e all’inesorabile invecchiamento della popolazione.

Gli enormi benefici economici e sociali nei paesi più avanzati, in cambio di condizioni di vita e di lavoro dignitose. È uno scambio storicamente e ragionevolmente vantaggioso per tutti.