Con ciò sono cresciuti gli artefatti che essa rende progettabili, e quindi nell’insieme la realtà virtuale – come è stata chiamata dai guru della rete – che ci circonda. In essa siamo abituati a vivere e navighiamo a vista tra mondi reali (grosso modo quelli che sembrano avere un riscontro empirico là fuori) e mondi virtuali (quelli che per così dire sono accesi o spenti dalla nostra mente).
Ora, i mondi virtuali sono costruiti tutti, direi, con beni comuni. Infatti, i beni virtuali sono essenzialmente beni cognitivi e beni normativi. I primi sono sottoinsiemi di saperi (distinti variamente tra saperi tecnici, pratici, analitici) e di saper fare (a loro volta legati al lavoro umano, alla capacità di modificare il mondo esterno ed interno, di controllare processi naturali), variamente distribuiti, ma in ogni caso circolanti, per la parte maggiore, liberamente nella comunicazione sociale. I secondi, quelli normativi, sono norme sociali, giuridiche, regole, regolazioni, istituzioni, “dispositivi” come li chiamano i sociologi francesi seguendo Foucault. Come si capisce, in parte essi risultano anche involontariamente dal processo sociale stesso (come ciò che viene chiamato capitale sociale), in parte sono progettati deliberatamente, soprattutto nella componente giuridico-formale ed istituzionale. Si deve notare che beni cognitivi e normativi continuamente sono chiamati a cooperare vicendevolmente per rendere possibili sempre nuovi mondi virtuali, che poi sono ancoraggi normativi e cognitivi della mente per muoversi con qualche agilità in un universo di cose sociali sempre più complesso.
Servono anche i beni futili
Non si deve eccedere, come siamo portati a fare nella nostra società tutta utilitaristica e funzionalista, nel credere che tutti questi beni ci siano per risolvere problemi e per renderci la vita più facile. Certo, essi sono condizioni di possibilità della vita sociale, ma tanta parte di essi è futile, in senso positivo in quanto non immediatamente utile, oppure ridondante, oppure anche semplicemente bella. Infatti, non si vive di solo pane (malgrado quanto brillantemente ha illustrato il nostro ministro dell’economia, quando ha detto che l’arte non si mette nei panini), e abbiamo bisogno di molti beni derivati dall’attività simbolica, appunto di mondi virtuali. Senza di loro la vita sociale non è possibile o è priva di senso. L’attività simbolica e linguistica è caratterizzata da una semiosi infinita, ovvero dalla produzione ininterrotta di significati e dispositivi. Quello che chiamiamo complessità è questa semiosi e i suoi esiti, a volte, diciamo pure fastidiosi. Così in particolare con riguardo alle norme e alle istituzioni. È duro riconoscere che lacci e laccioli sono indispensabili appunto perché impongono un “costo” al nostro agire, che è quanto dobbiamo alle condizioni di convivenza dalle quali non possiamo prescindere anche nelle nostre azioni più idiosincratiche.
Beni produttori di società
Si capisce che questi mondi virtuali sono comuni in quanto co-prodotti preterintenzionalmente (come nel caso delle norme sociali), ma anche in quanto – se prodotti deliberatamente – sono pensati per la circolazione e l’accessibilità più ampia possibile, come si capisce bene nel caso della conoscenza. Si potrebbe dire che questi beni sono potenti produttori di società, se e in quanto restano in questo dato di comunalità. Puntualmente possono essere, secondo regole certe, appropriati per usi e vantaggi privati. Ma con l’inversione dell’onere della prova a carico del proprietario che dovrebbe mostrare i vantaggi sociali (non privati) di tale appropriazione. Se non supera questo test l’appropriazione è indebita e in questo caso particolare si potrebbe anche arrivare a dire che la proprietà è un furto (a danno della collettività). Ma per carità: qui lo dico e qui lo nego! Non voglio offendere la delicata sensibilità dei nostrani liberal d’accatto.
I beni virtuali sono eminentemente sociali nella genesi. Sono anche presupposti necessariamente condivisi della vita in comune, e questa affermazione diventa sempre più vera man mano che si procede lungo la via della società della conoscenza e del global change (la globalizzazione accompagnata debitamente dal mutamento climatico).
A cosa servono i beni virtuali
Qui vogliamo esaminare un uso sociale particolare, ma cruciale, dei beni virtuali (cognitivi e normativi). Un impiego eminentemente riflessivo e quindi prototipico di una società della conoscenza. I beni comuni, lo sappiamo tutti e ne abbiamo parlato già a lungo in questa sede, sono esposti alla tragedia dei beni comuni. Essa deriva dal fatto che molti beni comuni sono fragili, affidati ad equilibri delicati. Si pensi come sia facile abusare del bene comune fiducia nei rapporti sociali [si veda in proposito il mio testo pubblicato su parolechiave n. 42/29, numero monografico dedicato al tema fiducia]. Per evitare il loro degrado è necessario disporre di, ed attivare risorse cognitive e normative e quindi beni comuni virtuali. Si tratta in primo luogo di un’attività di deliberazione tra gli interessati, poi della definizione di un contratto sociale di base o costituzione, infine di regole specifiche anche dettagliate adeguate alla natura del bene e al tipo di usi cui esso si presta. In generale, la tragedia dei beni comuni può essere “trattata” e in qualche misura disinnescata se disponiamo di adeguati beni comuni virtuali con i quali possiamo regolare la nostra relazione sociale con tali beni. Ciò vale con particolare evidenza in rapporto ai beni comuni naturali come l’ecosistema. Ma vale la pena riflettere sul fatto che quando la tragedia (ovvero l’abuso e la minaccia di degrado) riguarda beni virtuali, abbiamo una specie di terapia omeopatica, in cui beni virtuali curano altri beni virtuali. Succede però che i beni sono legati in una complessa catena per cui sia le virtù rispettive che i difetti (o danni subiti) si trasmettono da una all’altro. Così possiamo spiegare perché nelle terre di camorra sia così difficile ricostruire una cultura della legalità. La comunicazione sociale lì è deformata, il capitale sociale consunto o pervertito, le istituzioni deboli e ritenute non affidabili, i dispositivi locali sono bloccati su alternative asociali. E così via.
Virtuale vuol dire potenziale
Ciò è stato ben capito per esempio quando i progetti di sviluppo in contesti difficili non riescono anzi diventano patogeni. Occorre quindi uno sguardo complessivo sulla rete che lega i beni virtuali, sottolineando anche il rapporto cruciale tra conoscenza e istanze normative. In particolare, per trattare la tragedia, risulterà sempre decisivo il sapere relativo alla sostenibilità di quel bene e l’evoluzione di regole sociali adeguate e competenti (ciò è stato ampiamente mostrato dagli studi di E. Ostrom ormai tradotti anche in italiano).
Tutti ci rapportiamo a beni comuni per vivere socialmente, tutti ne possiamo facilmente abusare, tutti abbiamo bisogno che ci siano beni virtuali disponibili e mobilitabili per trattare le tragedie che noi stessi provochiamo. Come si vede una relazione complessa, e tutt’altro che banale. I beni virtuali ci aiutano in modo decisivo a governare bene i tutti i beni comuni, se e in quanto noi abbiamo cura e rispetto proprio per il fattore virtuale. Virtuale vuol dire potenziale, ovvero una realtà che può essere messa in opera in forme diverse, e sempre innovative. La cura dei beni comuni virtuali è cura dei potenziali sociali di riflessività. Con particolare riguardo al ruolo di tali beni nel loro aiutarci a comportarci meglio con tutti i beni comuni: farne buon uso, specie sostenibile, e adoperarsi in modo intelligente (ma non c’è intelligenza senza mondi virtuali accessibili e progettabili) per la loro cura. E si ricordi sempre che norme sociali e giuridiche e istituzioni sono essenzialmente beni comuni virtuali.
Il rapporto con la sussidiarietà
Dunque, i beni virtuali sono una parte essenziale dei beni comuni, ed hanno proprio un pregio specifico nell’essere la risorsa chiave per trattare le tragedie dei beni comuni che si vanno accumulando nella nostra epoca. Tra essi sappiamo che le istituzioni e le forme istituite sono componenti strategiche. Ormai anche la sussidiarietà è rientrata nel novero dei principi istituzionali del nostro ordinamento, come in quello comunitario. Quindi – ma questo lo abbiamo già argomentato in modo più analitico in un precedente intervento – la sussidiarietà è un bene comune (virtuale). Essa rientra nella classe dei beni normativi, che devono essere riconosciuti come doverosi ed obbliganti dalla mente. In ciò giocano un ruolo importante risorse cognitive, ma alla radice sempre troviamo una pretesa che fa riferimento a principi costituzionali. È rilevante il gioco cooperativo tra saperi e obbedienza intelligente, (l’espressione è di R. Conte) cioè tra conoscenze tecniche e pratiche orientate al problem solving e credenze fondate nella validità delle regole da seguire. Il punto che desidero sottolineare, anche perché è davvero cruciale per una corretta nozione dei beni comuni, è che proprio la sussidiarietà mostra quanto sia importante la catena che lega gli uni agli altri i beni dentro la loro sconfinata enciclopedia.
Certamente le pratiche di sussidiarietà sono in grado di attivare una serie di beni comuni virtuali (conoscenze anche tacite, motivazioni, persuasioni, capitale sociale e capacità individuali) che restavano allo stato latente nell’alienante situazione di asimmetria tra amministrazione e cittadino (un punto tante volte chiarito anche da Gregorio Arena). Ma le pratiche di sussidiarietà rivelano anche l’altro aspetto, cioè quanto essa sia dipendente per essere efficace e giusta – anche in rapporto ai principi costituzionali – dagli altri beni virtuali di cui ha bisogno per procedere. Nessuna sussidiarietà senza saperi e buoni motivi per agire, e viceversa.
Abbiamo sottolineato il ruolo dei beni comuni virtuali nel governo di tragedie di beni comuni. Evidenziamo la posizione della sussidiarietà come principio normativo dentro la catena dei beni comuni, nella loro reciproca complementarietà. Notiamo le dinamiche che essa può indurre nel patrimonio dei beni comuni (specie nel capitale sociale locale).
La tragedia degli anticommons
Possiamo concludere per ora che anche la sussidiarietà è una risorsa per trattare tragedie, come nel caso del governo di beni culturali e ambientali, e in generale come riattivazione di risorse cognitive e motivazionali che rischiano la tragedia degli anticommons (il rischio che un bene socialmente pregiato non venga valorizzato o resti sottoutilizzato per incapacità di governo, come nel caso delle risorse cognitive in Italia). Del resto stiamo appunto vivendo in una società che sta rinunciando al potenziamento del suo patrimonio di beni cognitivi e normativi, e sta degradando verso la sindrome di una tragedia dei beni comuni endemica e pervasiva. Da qui l’importanza di una collocazione produttiva della sussidiarietà nel quadro di un processo di recupero di capacitazioni umane, sociali ed istituzionali, di cui abbiamo urgente bisogno.