La sentenza
Con la sentenza del 3 novembre 21, n. 325, la Corte Costituzionale si è pronunciata su un insieme di ricorsi in via principale aventi per oggetto disposizioni afferenti alla materia della regolazione dei servizi pubblici locali.
In particolare, ben sei regioni si erano rivolte al giudice di legittimità costituzionale, chiedendo una sua pronuncia in relazione a vari commi dell’art. 23 bis del decreto legge n. 112 del 25 giugno 28, convertito con modificazioni dalla legge n. 133 del 6 agosto 28 , sia nel testo originario che in quello modificato dall’art. 15, c. 1-ter, del decreto legge n. 135 del 25 settembre 29 , nonché in relazione al comma 1 ter, dell’art 15 dello stesso decreto legge 135/29.
Si tratta di disposizioni che introducono importanti novità nella disciplina delle modalità di affidamento dei servizi pubblici locali determinando l’abrogazione, per le parti incompatibili dell’articolo 113 del decreto legislativo n. 267 del 18 agosto 2. Esse dispongono, infatti, l’estensione agli «imprenditori o [..] società in qualunque modo costituite » delle procedure competitive ad evidenza pubblica per l’affidamento dei servizi pubblici locali di cui all’art. 113, c. 5, lett. a). Viene, inoltre, modificato il regime di affidamento della gestione del servizio pubblico locale tramite il sistema del partenariato pubblico-privato, che è da considerarsi un caso di conferimento della gestione del servizio in via ordinaria. Esso è, tuttavia, praticabile a patto che si rispettino due condizioni, vale a dire che la procedura di gara riguardi non solo la qualità di socio, ma anche l’attribuzione di specifiche mansioni operative, legate alla gestione del servizio, e che tale socio privato sia detentore di una quota di partecipazione al capitale societario non inferiore al 4% del totale.
Infine, l’ultima novità riguarda l’affidamento diretto della gestione del servizio pubblico locale, definito quale regime derogatorio che può avere luogo solo nel caso in cui sussistano «situazioni eccezionali che […] non permettono un efficace ed utile ricorso al mercato » e pur sempre nel rispetto dei «requisiti richiesti dall’ordinamento comunitario per la gestione cosiddetta ” in house ” ». Per tale modalità di affidamento si richiedono anchei nuovi adempimenti procedurali quali una previa «pubblicità adeguata » e una motivazione di detta scelta da parte dell’ente in base ad un’ «analisi di mercato », oltre alla trasmissione, nel caso in cui l’affidamento superi determinate soglie di rilevanza economica, di una «relazione » dall’ente affidante all’Autorità garante per la concorrenza ed il mercato al fine di ottenereparere preventivo. In merito alle questioni prospettate, la Corte si è pronunciata, in primo luogo, affermando che riguardo la lamentata violazione, da parte delle disposizioni impugnate, dell’articolo 117, comma 1, per contrasto con la disciplina dei servizi pubblici locali desumibile dall’ordinamento europeo e dalla Carta delle autonomie locali, le disposizioni censurate «non ne costituiscono né una violazione, né un’applicazione necessitata. In secondo luogo, vengono ritenute non fondatenon ne costituiscono né una violazione, né un’applicazione necessitata.
Esse, piuttosto, «sono semplicemente con questa compatibili, integrando una delle diverse discipline possibili della materia che il legislatore avrebbe potuto legittimamente adottare ». Infatti, la normativa impugnata rappresenta una chiara evoluzione del principio generale che vieta nel nostro ordinamento, ai sensi degli artt. 35 della legge n. 448 del 28 dicembre 21, e 14 del decreto legge n. 269 del 3 settembre 23, [non censurati dalle ricorrenti, N.d.r.], la gestione diretta del servizio pubblico da parte dell’ente locale. In secondo luogo, vengono ritenute non fondate la questioni riguardanti la prospettata violazione della competenza regionale residuale sui servizi pubblici locali cui al comma quarto del medesimo art. 117.
La Corte, sul punto ritiene che «tenuto conto degli aspetti strutturali e funzionali suoi propri e della diretta incidenza sul mercato », le disposizioni che toccano le modalità di affidamento della gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica, incluso il servizio idrico, sono da ricondurre entro la materia della «tutela della concorrenza », riconoscendo piena legittimità alle disposizioni impugnate. L’unica censura che la Corte riconosce come fondata, riguarda la previsione dell’assoggettamento dei soggetti gestori del servizio in modalità in house al patto di stabilità interno disposto al primo periodo della lett. a), comma 1, dell’articolo 23 bis, da predisporre attraverso i regolamenti attuativi del governo. Il fatto che la disposizione preveda che tali regolamenti siano da emanare «sentita la Conferenza unificata » e non d’intesa con la stessa, violerebbe l’art. 117, comma 3, in relazione alla competenza concorrente tra stato e regioni in materia di coordinamento della finanza pubblica. Infine, la Corte riconosce il pieno rispetto, da parte delle disposizioni impugnate, del principio di ragionevolezza, sia sotto i profili della proporzionalità che dell’adeguatezza.
Infatti, non osterebbe ad una corretta applicazione dei criteri del riparto legislativo il carattere autoapplicativo e di dettaglio della normativa in esame, essendo comunque questa ricondotta nell’ambito della tutela della concorrenza. Né, d’altra parte, il principio di ragionevolezza potrebbe ritenersi leso dalle norme censurate in quanto pongano limiti più restrittivi, rispetto a quelli comunitari all’affidamento in house in alcun modo, infatti, verrebbe impedito all’ente pubblico locale di svolgere la sua «speciale missione », ex art. 16 del TFUE.
Il commento
Con la sentenza n. 325 del 3 novembre 21 la Corte costituzionale continua la lunga serie di pronunce in tema di servizi pubblici locali, sostenendo la necessità di un rigoroso rispetto della competenza legislativa dello Stato in materia, qualora la disciplina in questione intersechi l’ambito della tutela della concorrenza, poiché rivolta alla regolazione delle modalità di affidamento della gestione degli stessi.
In effetti, la mancata previsione, nel testo dell’art. 117, riformato con la legge costituzionale 18 ottobre 21, n. 3, di una specifica disposizione che definisca la competenza legislativa in relazione all’ordinamento dei servizi pubblici locali ha implicato la necessità di un consistente intervento da parte della consulta affinché fossero sanciti i limiti di legittimità della legislazione regionale e statale in materia. Dunque la giurisprudenza costituzionale ha avuto il difficile compito di sopperire a tale omissione attraverso un’opera di cesellatura dei rispettivi confini di intervento; in particolare pare di poter affermare che l’indirizzo giurisprudenziale della Corte costituzionale in questa materia abbia subito un progressivo irrigidimento su posizioni meno favorevoli rispetto alle rivendicazioni delle regioni, con l’obiettivo di assicurare al legislatore nazionale saldi fondamenti giuridici per poter procedere nel suo percorso di riforma della disciplina in senso marcatamente pro-concorrenziale.
Tali considerazioni prendono spunto a partire dalla nota sentenza n. 272 del 24, richiamata dalle ricorrenti e dagli stessi giudici della consulta nell’argomentare le proprie posizioni, dove pure veniva affermato che sebbene l’ordinamento dei servizi pubblici locali sia da ascrivere alla competenza residuale delle regioni, ciò non impedisce al legislatore statale di vedersi riconosciuto un legittimo spazio di intervento ogni qualvolta detti disposizioni che disciplinino le modalità di gestione di tali servizi. In particolare la Corte affermava, all’epoca, che «l’accoglimento di questa interpretazione comporta, da un lato, che l’indicato titolo di legittimazione statale è riferibile solo alle disposizioni di carattere generale che disciplinano le modalità di gestione e l’affidamento dei servizi pubblici locali di ” rilevanza economica ” e dall’altro lato che solo le predette disposizioni non possono essere derogate da norme regionali ».
Il citato orientamento, in cui sono evidenti gli sforzi di equilibrare le prerogative dei diversi organi depositari della potestà legislativa, sembra però tradito dalle argomentazioni proposte dalla Corte in questa recente sentenza. Quando il giudice afferma che le disposizioni, formulate dall’ordinamento europeo, non rappresentano altro se non un ” minimo inderogabile ” da cui il legislatore nazionale può partire per dettare una normativa più garantista nei confronti del rispetto delle regole del mercato – restringendo sensibilmente, come nel caso di specie, le ipotesi in cui sia possibile ricorre all’affidamento diretto del servizio – di certo non avanza argomentazioni irragionevoli. Nessuno infatti, neanche il giudice delle leggi, può sindacare sulla decisione del parlamento nazionale di adottare, nell’esercizio del suo potere discrezionale, norme di disfavore nei confronti delle modalità di gestione in house dei servizi e di ampliamento delle ipotesi di applicazione delle procedure concorsuali ad evidenza pubblica.
Tuttavia ci si deve domandare, in primo luogo, se una disciplina, come quella in esame, nel momento in cui pone una normativa cosìstringente, possa essere valutata, come effettivamente è stata ritenuta dalla Corte, ragionevole e proporzionata rispetto agli obiettivi che essa si prefigge. Proprio nella citata sentenza 272/24, i giudici avevano ritenuto che disposizioni estremamente dettagliate ed auto-applicative, in una materia definita ” trasversale ” come quella in esame, in quanto determinavano «una illegittima compressione dell’autonomia regionale », fossero da considerare ingiustificate e non proporzionate rispetto all’obiettivo della tutela della concorrenza.
Ostacolare in modo tanto deciso il ricorso allo strumento dell’affidamento diretto della gestione di un servizio pubblico locale, come fa l’art. 23 bis del decreto legge 112 del 28, potrebbe infatti determinare in qualche misura una costrizione di quelle medesime regole della concorrenza che il legislatore si prefigge di tutelare, minando lo stesso assetto competitivo del mercato di riferimento. Si dovrebbe infatti riflettere su come, una volta precluso agli enti territoriali di fare ricorso alla gestione in house del servizio, gli imprenditori privati sarebbero messi in salvo riguardo a qualsiasi valutazione comparativa del loro operato rispetto a quello svolto, al di fuori del mercato, dal gestore pubblico, determinandosi potenzialmente una riduzione della competitività degli operatori stessi, nel momento in cui viene eliminato uno dei possibili ” concorrenti ” .
Inoltre, una riserva, pressoché esclusiva, al parlamento di questa materia non può che comportare un evidente disconoscimento del ruolo parimenti determinante che può giocare, nella regolazione dei servizi pubblici locali, anche il legislatore regionale. Il che è tanto più rilevante alla luce di quello che è un valore – di eguale dignità – sancito e tutelato nell’ordinamento comunitario e, di conseguenza nel nostro, relativo alla promozione della coesione economica e sociale, di cui il principio di sussidiarietà è il principale strumento realizzativo.
Eppure, le invocazioni rivolte a tale principio da parte delle ricorrenti rimangono sostanzialmente inascoltate da parte della Corte ed in modo inaspettato, se si considera come essa stessa ricordi, tra le premesse alle proprie argomentazioni, come la tutela della concorrenza non rappresenti un valore in assoluto per il nostro ordinamento, bensìammetta le deroghe necessarie al bilanciamento con altri interessi costituzionalmente riconosciuti.
Ebbene, tali interessi, come quello all’autonomia degli enti territoriali di cui la repubblica si compone sancito agli artt. 5 e 114 della nostra carta fondamentale, cosìcome quelli di adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà , di cui all’art. 2 – e lo stesso comma 1 dell’art. 23 bis afferma di voler «garantire il diritto di tutti gli utenti alla universalità ed accessibilità dei servizi pubblici locali ed al livello essenziale delle prestazioni […] secondo i principi di sussidiarietà , proporzionalità e leale cooperazione » – sembrano del tutto irrilevanti nell’orizzonte prospettico adottato dalla Corte, consolidando le perplessità sul merito della decisione assunta.