Nel suo articolo, si guarda alla Big Society1 come ad un’occasione persa, l’ennesima in Italia, a causa del mancato confronto (tra le assenze di governo e opposizione e il disinteresse generale). Così, questo nuovo concetto, che portava in seno un’occasione importante di cambiamento e sviluppo del Paese, in Italia, non è mai decollato. Vuoi per una generale pigrizia intellettuale, vuoi per il timore che il richiamo alla società civile fosse un velo, dietro al quale celare drastici tagli dei fondi pubblici, vuoi ancora perché la cultura anglosassone era vista come “troppo lontana”, di fatto, il nostro Paese è sembrato spaventato dalla “fine del dirigismo e del centralismo amministrativo”.
Peraltro, la Big Society non è una panacea e, accanto alle indiscutibili luci, nasconde ombre che non è possibile sottovalutare. In particolare, nota il direttore responsabile del Laboratorio, non si può parlare di vera sussidiarietà. Infatti, la gestione corporativa di beni pubblici lascia spazio a “soggetti quasi profit che presumono di garantire la libertà di scelta degli utenti, ma che in realtà stabiliscono nuove forme di discriminazione di fatto”.
Onde evitare che la Big Society si trasformi da opportunità e trappola, c’è bisogno di sciogliere alcuni nodi quali quelli relativi a: la responsabilità permanente delle istituzioni, l’ accesso universale ai diritti da parte dei cittadini, gli strumenti per rendere effettivo l’empowerment delle organizzazioni civiche.
A questo punto, due sono le considerazioni di Vittorino Ferla. Anzitutto, le istituzioni della Repubblica dovrebbero (in linea con quanto disposto dall’articolo 118 della Costituzione) realmente stimolare l’attivismo civico e “responsabilizzare” i cittadini. Questo costituisce un impegno sostanziale dei pubblici poteri, che prende la veste di una vera e propria politica pubblica. In secondo luogo, il coinvolgimento e la partecipazione della società civile, e delle sue organizzazioni, non può tradursi in una massiccia ritirata dello Stato, che resta al contrario tenuto ad “investimenti ed interventi massivi”, al fine di mantenere un alto livello di qualità ed universalità di servizi fondamentali, quali quelli legati ai settori di: istruzione, ricerca, infrastrutture, servizi sociali e sanitari, servizi di pubblica utilità, ecc.
1. Sul tema della Big Society, si veda l’editoriale di Maria Cristina Marchetti, "Sussidiarietà: the British way" e quello di Vittorino Ferla "Quello che non si dice sulla Big Society", entrambi pubblicati sul sito di Labsus.