L’uso della risorsa idrica e la gestione delle reti che innervano il cd. servizio idrico integrato (SII) sono il crocevia di diverse fratture singolarmente riscontrabili anche in altri settori. Prima fra tutte la frattura fra nord e sud che si dispiega sia sul piano infrastrutturale, che su quello tariffario. Il Censimento delle risorse idriche a uso civile per l’anno 28 elaborato dell’ISTAT attesta un tasso di dispersione medio pari al 47% dell’acqua immessa nelle reti idriche con picchi dell’8% in regioni come Puglia, Sardegna, Molise e Abruzzo. Sotto il secondo profilo, sempre secondo dati Istat elaborati da Cittadinanzattiva, le tariffe sono mediamente più care al nord che al sud. Ma vi sono anche la frattura fra istituzioni e società, la frattura fra centro e periferia, la frattura fra Stato e mercato e quella fra diritto ed economia. La caratteristica del settore idrico è che queste fratture sono tutte contemporaneamente presenti. In definitiva, l’unità idrica del Paese non si è mai realizzata.
Ora, le scelte operate con il decreto Ronchi sembrano aver aggravato le fratture esistenti. In primo luogo, sul piano della frattura fra diritto ed economia, il Ronchi non tiene conto delle specificità tecniche ed economiche dei diversi servizi pubblici locali che pretende di collocare sotto un unico ombrello regolatorio. In secondo luogo, sotto il profilo del rapporto fra Stato e mercato, esso sembra essere viziato da una presunzione fallace in virtù della quale la gestione privata sarebbe indefettibilmente più efficiente della gestione pubblica. Anche un recentissimo paper della Fondazione ENI ha dimostrato che non è sempre così. Eppure esiste a livello internazionale una casistica di insuccessi che accomuna pubblico e privato. Ma vi sono casi di eccellenza anche nel settore pubblico, anche perché a livello mondiale il 9% degli operatori è pubblico, come dimostrato da alcuni ricercatori del Transnational Institute. Perché la qualità e l’efficienza del servizio dipendono dalla intelligenza e dalla competenza di chi gestisce le aziende idriche e non dal colore del loro capitale.
I veri costi del Ronchi
L’unico vero effetto della modifica è stato il rallentamento negli investimenti infrastrutturali a causa della incertezza normativa che essa ha prodotto in tema di governance e regolazione del settore (v. Jacopo Giliberto, Gli acquedotti pubblici frenano gli investimenti, in Il sole 24 ore, 13 febbraio 21, p. 21). E non si tratta di un settore in cui gli investimenti abbondino. Dopo quindici anni di incertezza dovuti alla lenta implementazione del sistema ideato dalla legge n. 36 del 1994 (cd. legge Galli), era stata avviata la realizzazione di circa la metà degli investimenti previsti nei piani d’ambito (circa 6 miliardi di euro nei prossimi dieci anni). E questa ennesima rivoluzione non può certo giovare a un settore come quello idrico, caratterizzato da costi fissi molto elevati affrontati in un’ottica di lungo periodo, che perciò richiede certezza dei ricavi e quindi certezza del quadro regolatorio.
Ma la recente riforma ha sollevato molti più problemi dal punto di vista della coesione istituzionale, sociale e civica del Paese. Ad essa si sono strenuamente opposti comitati di cittadini ed enti locali (come il Forum italiano dei movimenti per l’acqua e il comitato SiAcquaPubblica) che hanno chiesto di sottoporre il decreto Ronchi a referendum abrogativo. Sono poi approdate in Parlamento una proposta di legge di iniziativa popolare specifica sull’acqua e un’altra di iniziativa parlamentare sulla modifica del regime codicistico dei beni pubblici, entrambe comunque volte a preservare e difendere la natura delle risorse idriche come bene comune. Alcuni comuni, invece, hanno deciso di battere strade alternative, come la campagna dal titolo l’Acqua del sindaco con la quale si propone l’adozione di una modifica dello statuto comunale per inserirvi una disposizione anti-privatizzazione. Alcune regioni (come la Puglia) hanno, invece, annunciato di voler battere un sentiero diverso, con l’adozione di leggi regionali che configurino l’acqua come un bene non commerciabile e il servizio idrico come un servizio privo di rilevanza economica e, dunque, di competenza esclusiva regionale in base alla sentenza della Corte costituzionale n. 272 del 24 (anche se la recentissima sentenza 37 del 29 non sembra offrire grandi spiragli a questa soluzione). Senza considerare i ricorsi alla Corte costituzionale presentati da diverse regioni per ottenere la declaratoria di incostituzionalità del decreto Ronchi e dell’art. 23-bis d.l. 112 del 28 sulla base dei profili messi ben in evidenza anche da Alberto Lucarelli.
Sollevare il velo della demagogia
La conflittualità generata dal decreto Ronchi è probabilmente dovuta a due suoi ulteriori difetti: la scarsa condivisione con i diversi stakeholders e l’approccio non sistemico, bensì eccessivamente focalizzato sull’aspetto della gestione. In alcuni casi sono stati utilizzati argomenti demagogici per criticare questa iniziativa legislativa. La risorsa rimane, da un punto di vista strettamente giuridico, pubblica. E’ vero, ma la gestione della risorsa viene di fatto lasciata ai privati che in un quadro regolatorio al momento poco efficace sono incentivati ad operare con un solo obiettivo: la redditività di breve termine. E lo possono fare perché si tratta di un’attività produttiva a basso valore aggiunto svolta in condizioni di monopolio naturale, asimmetria informativa e carenza di controlli sulla qualità del servizio e sull’effettivo svolgimento del programma di investimenti necessari all’ammodernamento delle reti idriche. Alcuni di questi rilievi sono stati sollevati anche dai sostenitori del referendum (v. la relazione di accompagnamento ai quesiti referendari). Con la nuova normativa la gestione pubblica diverrà inevitabilmente recessiva, anche se ha dato buona prova di sè. Anzi, se un comune intende continuare a gestire il servizio in house deve candidarsi come ogni altro competitor privato alla gara pubblica, con tutti i problemi in termini di conflitto di interessi, spreco di risorse e asimmetrie informative che ne derivano. Senza considerare l’illogicità di una simile scelta dal punto di vista del principio di economicità dell’azione amministrativa e, soprattutto, la lesione del principio di auto-organizzazione degli enti locali.
Il legislatore non vede il bene comune
Ad esempio, a differenza di altri paesi come gli Stati Uniti, non è mai stata tentata la strada di utilizzare, per la gestione delle infrastrutture idriche e/o la erogazione dei servizio idrico, moduli organizzativi oppure soggetti privati che non perseguano finalità lucrative, come fondazioni e soggetti del terzo settore.
Neppure la gestione civica della risorsa viene presa in considerazione, neanche laddove – come nelle zone montane o insulari – rappresenti l’unica vera possibilità di assicurare una gestione sapiente, responsabile e qualitativa della risorsa (vd. il caso di Mezzane Montaldo). Del resto, la teoria che propone una gestione "comunitaria" delle common pool resources (come le acque sotterranee), in presenza di determinate condizioni che ne garantiscano la sostenibilità, è stata premiata di recente con l’assegnazione del Nobel per l’economia a Elinor Ostrom.
Da ultimo, i cittadini potrebbero essere arruolati come "controllori", "monitori" della qualità dell’acqua e dei risultati della gestione del servizio. Si allude cioè a quelle forme di audit civico che si sono già sviluppate in altri settori (come in quello sanitario) e che sono destinate a trovare un proprio spazio anche nel settore idrico in virtù dell’art. 2 comma 461 della legge finanziaria 28 e delle sperimentazioni amministrative in corso, nonostante le recenti riforme legislative segnino il passo su questo fronte. In questa veste, i cittadini valutano i servizi forniti dali operatori (pubblici o privati che siano) e sono messi in condizione di formulare giudizi e proposte di miglioramento. Naturalmente, l’efficacia dell’audit civico dipende da come i poteri pubblici e gli operatori sapranno utilizzare e valorizzare l’apporto dei cittadini.
D’altro canto, si tratta di dare applicazione a un principio già scolpito nel secondo principio della dichiarazione di Dublino del 31 gennaio 1992, adottata sotto l’egida dell’ONU, secondo cui "La gestione e valorizzazione delle risorse idriche devono essere basate sul coinvolgimento partecipativo degli utenti, pianificatori e responsabili politici a tutti i livelli. L’approccio partecipativo comporta una crescente consapevolizza dei politici e della popolazione riguardo l’acqua. Ciò significa che le decisioni andranno prese il più possibile con il coinvolgimento e la piena consultazione degli utenti sia per quanto riguarda la pianificazione che l’attuazione dei progetti idrici".
Acqua dolce, tariffe salate
Né si è posto mano al problema più direttamente collegato alla sensibilità dei cittadini e alla protezione del loro diritto fondamentale all’acqua, e cioè alla regolazione indipendente del servizio e, in particolar modo, della tariffe idriche. Ad oggi esistono ancora due sistemi tariffari, il cd. metodo CIPE per le “gestioni tutelate”, in salvaguardia o in economia, e il cd. metodo normalizzato per i gestori affidatari di Servizio Idrico Integrato, peraltro articolato secondo strutture tariffarie risalenti a provvedimenti degli anni ’7. E in ogni caso il sistema di controllo e raccolta dati è ancora caratterizzato da incompletezze, imprecisioni, assenza di trasparenza e chiarezza (v. relazione COVIRI 29).
Addio alle AATO
Anzi, nel sempre più frammentario quadro regolatorio, l’art. 1, comma 1-quinquies, della legge n. 42 del 21 ha introdotto un ulteriore elemento di frammentazione eliminando uno dei pochi elementi di coesione e governance del sistema contemplato dalla legislazione vigente: le autorità d’ambito. Certo in alcune realtà si sono rilevate una fonte di sprechi e hanno mancato di rappresentare in maniera ferma le posizioni contrattuali della parte pubblica. Ma in altri casi esse hanno rappresentato un argine alle logiche meramente imprenditoriali e un bastione a difesa degli interessi dei cittadini. Anche qui il legislatore, anziché ragionare su un sistema di “sticks and carrots” (sanzioni e incentivi), ha preferito la “logica dell’accetta”.
Per una governance delle acque
Ma l’aspetto più inquietante è che nessuna delle iniziative finora considerate prende in considerazione il problema inquadrandolo in termini più sistemici. Si dovrebbe, infatti, discutere non della mera rilevanza economica o meno del servizio idrico, bensì di una nuova “governance delle acque" che abbia di mira nel contempo un uso razionale e sostenibile della risorsa (sia per uso umano, che per usi produttivi, agricolo e industriale), da un lato, e la qualità del servizio e delle infrastrutture, dall’altro. In un’ottica di sistema, il problema di chi gestisce il servizio idrico integrato (pubblico, privato, cittadini, ecc.) diviene così un tassello quasi microscopico del complesso mosaico dell’acqua come bene comune. Mentre acquista molta più importanza una politica pubblica integrata e di sistema volta a garantire un uso responsabile e sostenibile della risorsa da parte di tutti i suoi utilizzatori (consumatori finali, utenti industriali e agricoli, società commerciali concessionarie delle acque minerali, ecc.), l’ammodernamento delle infrastrutture e della gestione per porre rimedio alle perdite strutturali e amministrative delle reti idriche, un sistema di valutazione pubblica e/o civica del modo in cui la risorsa viene gestita o valorizzata al fine di garantire l’attivazione di meccanismi che facciano emergere le responsabilità, positive o negative, degli attori pubblici o privati coinvolti nel complessivo sistema del governo delle acque e, conseguentemente, inneschino l’attivazione di meccanismi sanzionatori o premiali (la cd. accountability).
Gli assi di una riforma
In definitiva, per rimarginare le fratture che caratterizzano il settore idrico e realizzare così l’unità idrica del Paese bisognerebbe che il legislatore cominciasse a pensare all’acqua come a un bene comune. Questo approccio consentirebbe al decisore pubblico di individuare soluzioni che aiutino a sanare tutte le fratture esistenti e quindi a ritrovare la coesione perduta. Gli assi lungo i quali dovrebbe muoversi una auspicabile opera riformatrice orientata ad affrontare questo tema nell’ottica del bene comune e della sussidiarietà orizzontale sono quattro:
1. una più chiara definizione dello statuto giuridico della risorsa idrica come “bene comune” o “bene pubblico”, al fine di stemperare i conflitti sociali e istituzionali oggi esistenti e sgombrare il tavolo da pulsioni demagogiche;
2. la implementazione di una nuova governance delle risorse idriche che non si limiti a cogliere esclusivamente profili particolari, come la gestione del servizio idrico integrato. La nuova governance dell’acqua, nel rispetto dell’autonomia politica (costituzionalmente garantita) degli enti locali e con il riconoscimento della libertà delle formule organizzative, dovrà adottare un approccio aperto teso a coinvolgere i diversi stakeholders, pubblici e privati, istituzionali e sociali/civici, in un “sistema integrato” dotato di pesi e contrappesi, regolatori e regolati, benchmarks e valutazioni, sanzioni e incentivi;
3. la carenza di investimenti e, quindi, la necessità di concepire strumenti innovativi di finanziamento per reperire i fondi occorrenti all’ammodernamento delle reti idriche italiane (in particolare nelle aree depresse);
4. la riforma del sistema tariffario attraverso un’operazione di semplificazione e trasparenza e l’individuazione di un soggetto pubblico indipendente (unico o plurimo, centrale o decentrato), capace di ascoltare tutte le voci in campo, cui affidare la definizione della relativa regolazione, nonché la funzione di vigilanza sul suo rispetto da parte degli operatori.