La sentenza
La sentenza della Corte Costituzionale 273 del 2 luglio 21 riguarda il giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale dell’articolo 23, comma 4, del decreto legislativo 152 dell’11 maggio 1999 ” Disposizioni sulla tutela delle acque dall’inquinamento e recepimento della direttiva 91/271/CEE concernente il trattamento delle acque reflue urbane e della direttiva 91/676/CEE relativa alla protezione delle acque dall’inquinamento provocato dai nitrati provenienti da fonti agricole ” , come modificato dall’articolo 7 del decreto legislativo 258 del 18 agosto 2, ” Disposizioni correttive e integrative del decreto legislativo 152 dell’11 maggio 1999, in materia di tutela delle acque dall’inquinamento, a norma dell’articolo 1, comma 4, della legge 128 del 24 aprile 1998 ” , che sostituisce l’art. 17 del regio decreto 1775 dell’11 dicembre 1933, ” Testo unico delle disposizioni di legge sulle acque e impianti elettrici ” . In essa, la Corte fa riferimento ai diritti collettivi che possono essere attivati sul bene acqua. Infatti, da un lato, viene riconosciuto un diritto dell’utenza a tutelare il bene comune acqua e, dall’altro, si legittimano forse, implicitamente e ulteriormente, le forme di tutela oggettiva di questo bene, quali possono essere gli strumenti di tutela giurisdizionale oggettiva.
Il procedimento a quo riguardava soggetti responsabili di cantieri approntati per la realizzazione della tratta ferroviaria ad alta velocità tra Firenze e Bologna, ai quali si contestava l’indebito impossessamento di acque pubbliche utilizzate nel corso dei lavori.
Il pubblico ministero riteneva che detta condotta, ove accertata, desse luogo alla violazione sia del precetto penale del furto aggravato, sia del precetto amministrativo. E’ infatti diverso il bene tutelato dalle due norme: la norma penale si riferisce al patrimonio dello Stato, mentre quella amministrativa si preoccupa di tutelare la regolamentazione del prelievo e la salubrità delle acque. Entrambi i precetti dovrebbero, pertanto, essere applicati. Al contrario, le difese degli imputati sostenevano la tesi della specialità della norma che prevede l’illecito amministrativo, rispetto alla previsione del delitto di furto, con conseguente irrilevanza penale della condotta di prelievo di acque sotterraneo o superficiali per fini industriali.
Il rimettente riteneva che la disposizione che configura l’illecito amministrativo fosse costituzionalmente illegittima, a causa delle violazione del canone di ragionevolezza e del principio di uguaglianza, di cui all’articolo 3 della Costituzione della Repubblica Italiana. Inoltre, sempre il rimettente affermava che l’introduzione di una norma di depenalizzazione dell’impossessamento abusivo a fini di lucro di un bene giuridico di riconosciuto valore fondamentale per la collettività , sarebbe risultato manifestamente privo di razionalità e di coerenza con il sistema dato, ossia con il complessivo indirizzo, degli ultimi decenni, volto a rafforzare la tutela del bene acqua, preservando la sua fruizione da parte della generalità dei cittadini. Tale orientamento di maggior tutela dell’ambiente e degli interessi della collettività sarebbe stato in contrasto con l’attenuazione del rigore punitivo nei confronti dei soggetti che sottraggono quantitativi più o meno ingenti di acqua di uso pubblico, al fine di realizzare profitti diretti, derivanti da commercializzazione, o indiretti, derivanti da utilizzo del bene.
L’illegittimità costituzionale deriverebbe – secondo il tribunale di Firenze – dalla disparità di trattamento tra condotte identiche relative sia allo stesso bene giuridico sia a beni di diverso valore sociale, apprestando tutela minore proprio a quel bene che maggiormente si intende tutelare. D’altro canto, la norma introdurrebbe disparità di trattamento tra condotte poste in essere prima o dopo l’entrata in vigore della disposizione in esame (fenomeno della successione delle leggi), ovvero che risultino sorrette o meno dalla ” finalità industriale ” .
La Corte Costituzionale ha sottolineato che l’effetto di depenalizzazione, scaturente dall’applicazione del principio di specialità , sia stato voluto dal legislatore, che ben conosceva l’impianto legislativo in cui la norma in esame andava ad inserirsi. Il potere di depenalizzare fatti dinanzi configurati come reati rientra, infatti, nel potere discrezionale del legislatore. Questo risulta censurabile, in sede di sindacato di costituzionalità , solo nel caso di manifesta irragionevolezza (si veda la sentenza 364 del 24, ed in precedenza, ex plurimis, sentenza 313 del 1995, ordinanze numero 11 del 23, numero 144 del 21, numero 58 del 1999). Nell’ordinanza 317 del 1996, si legge infatti che ” risulta rimesso alla scelta discrezionale del legislatore, purché non manifestamente irragionevole, valutare quando e in quali limiti debba trovare applicazione lo strumento penale piuttosto che altri strumenti di tutela di beni ritenuti essenziali ” .
A questo punto, la Corte ha richiamato il contesto normativo di riferimento e notato come questo attui il disegno del legislatore di regolare in modo sistematico e programmato l’uso collettivo di un bene indispensabile e scarso quale l’acqua. Ciò ha comportato la prevalenza delle regole amministrative di fruizione sul mero aspetto dominicale e spiegato la scelta del legislatore, che aveva, come intento principale, quello di ricondurre nell’alveo della regolarità un uso dell’acqua non in linea con la disciplina amministrativa.
Si aggiunge che l’integrale pubblicizzazione delle acque superficiali e sotterranee è stata strettamente legata, dall’articolo 1 della legge 36 del 5 gennaio 1994 ” Disposizioni in materia di risorse idriche ” , alla salvaguardia di tale risorsa ed alla sua utilizzazione secondo criteri di solidarietà .
Da questo doppio principio, discende la conseguenza che deve essere la pubblica amministrazione a disciplinare e programmare l’uso delle acque, allo scopo di consentire un equilibrato consumo per finalità diverse da quelle domestiche. Non viene in rilievo la contrapposizione tra Stato, proprietario del bene, e privati, bensìl’integrazione tra pubblico e privato, nel quadro della regolazione programmata e controllata dell’uso della risorsa idrica, che costituisce bene di tutti e, in quanto tale, deve essere distribuita secondo criteri razionali ed imparziali stabiliti da apposite regole amministrative.
Commento
Da quanto appena detto si deduce che la scelta legislativa di sanzionare solo in via amministrativa eventuali comportamenti trasgressivi delle regole di utilizzo delle acque non è manifestamente irragionevole, giacché deve aversi primariamente riguardo al rapporto tra cittadini e pubblica amministrazione nell’accesso ad un bene che appartiene in principio alla collettività . Tale rapporto viene alterato dalla violazione di norme che non sono poste soltanto a presidio della proprietà pubblica del bene, collocato in una sfera separata rispetto a quella dei cittadini, ma soprattutto a garanzia di una fruizione compatibile con l’entità delle risorse idriche disponibili in un dato territorio e con la loro equilibrata distribuzione tra coloro che aspirano a farne uso. Se tutti hanno diritto di accedere all’acqua, l’aspetto dominicale della tutela si colloca in secondo piano, rispetto alla primaria esigenza di programmare e vigilare sulle ricerche e sui prelievi, allo scopo di evitare che impossessamenti incontrollati possano avvantaggiare indebitamente determinati soggetti a danno di altri o dell’intera collettività .
La sanzione amministrativa prevista dalla norma censurata, d’altra parte, non è irrisoria e priva di efficacia dissuasiva, giacché i trasgressori, previa cessazione delle utenze abusive, sono tenuti al pagamento di una somma da 3mila a 3mila euro, oltre che dell’intero importo dei canoni non corrisposti. L’intento principale del legislatore è, dunque, quello di ricondurre nell’alveo della regolarità un uso dell’acqua non in linea con la disciplina amministrativa. Tutto il sistema è finalizzato a mantenere l’equilibrio ambientale, l’equa utilizzazione delle risorse idriche da parte dei cittadini e l’effettività dei piani di salvaguardia delle stesse, predisposti dalle autorità competenti.
Con questa sentenza, la Corte ha affermato un importante principio e cioè la prevalenza dell’aspetto ” pubblicistico ” del bene acqua, in quanto bene collettivo, rispetto a quello ” privatistico ” di bene appartenente al patrimonio dello Stato. In tal senso, ai cittadini viene riconosciuto il diritto all’equo e regolato uso della risorsa idrica, di una risorsa cioè che, di fatto, ” appartiene ” a tutti loro. La tutela non si lega, quindi, al concetto di proprietà , bensìa quello di universale diritto di accesso all’acqua, in un contesto di generale salvaguardia della risorsa e di equilibrio ambientale. Il bene ricade, dunque, nell’alveo della disciplina amministrativa: esso appartiene alla collettività in quanto bene comune.