Oggi infatti lo spazio pubblico attraversa un periodo difficile: attività , relazioni e anche rapporti lavorativi hanno visto quella che Cammelli definisce una “migrazione nel privato”, all’insegna di un’accentuazione del ruolo dell’individuo nel suo elemento di singolo avulso dalla comunità . Questo ha ridotto notevolmente la fruizione degli spazi pubblici, che sono rimasti abbandonati a loro stessi a danno del sistema di welfare e dei diritti sociali. Secondo Cammelli recuperare il valore del pubblico, come elemento stabilizzatore della coesione sociale, è ancora possibile a patto di riconoscere una nuova dimensione, un diverso modo di intendere il privato.
La proposta è quella di superare la dicotomia storica, eco della Rivoluzione francese, che vede una opposizione netta tra lo Stato come pubblico e il singolo come elemento di un privato egoistico. Nel mezzo, secondo Cammelli, esiste uno spazio che può essere sfruttato dagli individui: non in veste di singoli secondo un’accezione auto-referenziale, bensìnel ruolo di cittadini in senso proprio, ossia portatori di virtù e senso civico. Letto in questa nuova ottica di orizzontalità , il privato acquista un significato diverso. Da un lato si riscopre l’aspetto virtuoso della cura dei propri interessi, come forme di tutela di beni privati che si allargano in un contesto collettivo e condiviso, incoraggiato dallo stesso ordinamento italiano. La legge numero 2 del 29 infatti, all’articolo 23 prevede che piccoli interventi di sistemazione di arredo urbano compiuti dai privati proprietari possano essere scalati dalle tasse. Accanto a questo aspetto, si affianca quello che Cammelli chiama “privato-comunità ” riferendosi a quelle attività nate da un’appartenenza privata ma organizzate in una funzione pubblica o collettiva, ricordando la tradizione bolognese degli “addobbi”, per cui in occasione di feste parrocchiali gli abitanti si impegnavano a ridipingere le facciate delle proprie abitazioni, per non far sfigurare il quartiere.
Recuperare questo contributo del privato può aiutare a superare un ostacolo culturale tipicamente italiano, che negli anni si è esteso dal sud al nord del paese: l’idea che lo spazio comune sia una terra di nessuno e che dunque nessuno è tenuto a tutelarlo e averne cura. Cammelli dimostra che è esattamente l’opposto: la città è un bene comune ed appartiene ai cittadini, dunque laddove le istituzioni non riescono ad intervenire sono proprio i cittadini a doverlo e poterlo fare. Del resto è ciò che afferma il dettato costituzionale nell’articolo 118 che introduce il principio di sussidiarietà , riconoscendo ai soggetti sociali che soddisfino esigenze di carattere generale un proprio ruolo e spazio di autonomia.
Tuttavia, questo spazio di autonomia, che alcuni accostano all’idea di federalismo, e che permetterebbe di superare i limiti di un modello centralistico per concentrarsi sulle diverse realtà del territorio, può funzionare solo se sostenuto da una cornice di regole. Cammelli ricorda che “ogni volta che c’è un potere che non ha responsabilità e responsabilità che non hanno poteri, c’è qualcosa che non funziona”. Questa è la sfida dell’Italia di oggi: superare la cronica difficoltà a darsi uno schema di regole, vale a dire identificare dei giusti limiti da non oltrepassare perché non si cada nell’opposto, passando da una necessaria “differenziazione” dell’azione sussidiaria adattata a specifiche realtà , alla “frantumazione” del sistema. Secondo Cammelli questo lavoro potrebbe partire proprio dalla città , che è divenuta una realtà estremamente complessa la cui veste giuridico – istituzionale di Comune, su un modello di gestione accentrata, è ormai stretta ed avrebbe bisogno di una rilettura alla luce dei variegati flussi di persone che la vivono e delle molteplici reti e sedi di attività che la contraddistinguono.
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