Nella prima sessione del convegno si è discusso dell’idea di democrazia economica, in una rilettura del concetto giuridico ed economico di “bene”, volta a superare le tradizionali categorie di pensiero che fino ad oggi lo hanno relegato in un’ottica di mera patrimonialità nel campo del pubblico o del privato, lasciando invece nell’ombra l’idea di uno spazio terzo, comune e sociale.
Democrazia economica, lavoro e partecipazione
Come rilevato da Roberto Miccù, coordinatore della Sezione di Diritto dell’economia, oggi accanto ad una forte crisi economico-finanziaria si accompagna una parallela crisi degli strumenti della politica, in particolare nel suo elemento di rappresentatività in un paese come l’Italia dove, ricorda Claudio Rossano, la bassa partecipazione è quasi endemica.
Tuttavia stavolta accanto ai tradizionali schieramenti in campo che hanno sempre visto una contrapposizione netta tra municipalisti e privatizzatori, entra in gioco la sussidiarietà , proponendo una diversa logica politica e istituzionale. In fondo, fa presente Miccù, il concetto stesso di democrazia economica e lo sviluppo di un diritto pubblico dell’economia risalgono agli anni di Weimar e della nascita dello Stato sociale. Dunque questa terza via sussidiaria può trovare ispirazione proprio da questo ‘recente passato’ recuperandone i modelli per farne una base dei lavori. In questo senso Miccù richiama l’esperienza della gestione di servizi idrici in forma di cooperative di utenza, già realizzata in Germania e negli Stati Uniti e che in realtà è prevista dalla stessa Costituzione italiana all’articolo 43, mai attuato.
Sergio Fiorenzano, autore di diversi scritti sul tema, sottolinea infatti come l’istituto della cooperativa possa dare democraticità all’impresa coinvolgendo i soci nella governance dell’azienda e realizzando quindi proprio il principio di sussidiarietà orizzontale nella sua forma di cooperativa sociale, riducendo spesso i costi di un dato servizio per gli utilizzatori finali.
Nel suo intervento poi Marco Benvenuti, ricercatore presso l’Università di Roma la Sapienza, ricorda che la democrazia economica non ha solo carattere industriale ma sovranazionale e si pone come scopo quello di ridistribuire in modo equo la ricchezza socialmente prodotta. Anche in questo caso il dettato costituzionale sembra chiaro: il lavoro infatti, di solito ricondotto a categorie economiche e a questioni retributive, viene posto a fondamento dello stesso ordinamento giuridico che gli riconosce una funzione emancipatrice e socializzatrice. Gli stessi artt. 39 e 46 chiariscono la correlazione tra diritto al lavoro e diritto alla partecipazione all’interno e all’esterno dell’azienda, un diritto che oggi viene interpretato al massimo come diritto di collaborazione, riducendone la portata e gli spazi di realizzazione. In questo senso Benvenuti propone anche l’esempio della Germania di Weimar che presentava un sistema di doppi consigli: un Consiglio dei lavoratori ed un Consiglio di rappresentanti dei lavoratori e dei datori di lavoro, due istituti di dialogo non solo economico ma anche politico e sociale.
La seconda sessione ha invece avuto per oggetto il ruolo di Stato e cittadini nella cura del bene comune, e il tentativo di avvicinarsi ad un profilo giuridico soddisfacente per la loro tutela.
Beni comuni e partecipazione civica
Il dottor Volker Hassemer, presidente della fondazione Stiftung Zukunft Berlin, ha richiamato l’attenzione sulle potenzialità del singolo cittadino rispetto alle limitate capacità dei partiti politici odierni, in piena crisi di fiducia e rappresentatività . La politica, secondo Hassemer, tutta presa dalla sua crisi, non ha percepito il cambiamento avvenuto nel cittadino, che ha recuperato un proprio attivismo e sviluppato una maggiore consapevolezza e competenza rispetto ai diritti di libertà e alla complessità di problemi anche sovranazionali. Quindi anziché concentrare gli sforzi sul rafforzamento di parlamenti e governi rimanendo in un’ottica meramente istituzionale, bisognerebbe ragionare sulle possibili modalità di coinvolgimento dei cittadini nella vita pubblica. Non si tratta di contrapporre gli interessi dei cittadini a quelli della politica e delle amministrazioni, ma al contrario si tratta di identificarli in un interesse condiviso perché comune. Per attivare questo processo Hassemer propone cinque principi guida:
- La serietà dell’azione da parte di cittadini e politica. Un mero dialogo infatti non sarebbe sufficiente;
- è necessaria invece una effettiva partecipazione volta a prendere decisioni finali, che saranno di maggiore qualità se vi contribuiranno in concreto entrambe le parti;
- selezionare i soggetti che parteciperanno di fatto alla decisione tra quelli direttamente interessati dal problema di cui si discute, affiancandoli agli amministratori che applicheranno poi in concreto la decisione finale;
- assicurare pubblicità e trasparenza dei procedimenti, servendosi anche di forme di comunicazione offerte dalla moderna tecnologia;
- prevedere un controllo a posteriori da parte degli interessati, di modo da avere garanzie di responsabilità da parte delle amministrazioni locali.
Sono questi gli strumenti atti ad incoraggiare una maggiore partecipazione civica, in modo che le decisioni gerarchiche degli enti pubblici diventino invece decisioni partecipate tra cittadini, politici ed amministratori. Solo cosìla società , in primis nella sua relazione metropolitana, potrà recuperare “il suo senso di comunità e sentimento di condivisione” cessando di essere una mera somma di interessi individuali in contrasto con quelli delle alte sfere.
Beni comuni, quale regime giuridico?
A seguire Paola Chirulli ha cercato invece di dare una definizione di bene comune per poterne delineare un regime giuridico a loro tutela. Tuttavia individuare una categoria per i beni comuni risulta difficile in quanto le tradizionali categorie del diritto civile sembrano non applicabili al caso. Il bene comune infatti, spiega Chirulli, può definirsi un bene a titolarità diffusa il cui regime prescinde, almeno in parte, dall’appartenenza proprietaria e per il quale si prevedono accesso e fruizione disponibili per l’intera collettività .
Da questa definizione emerge l’impossibilità di fare riferimento alla distinzione tra bene materiale e immateriale, senza contare che spesso si tratta di beni comuni superiori cioè complessi e derivati dalla somma di altri beni comuni. Anche il diritto costituzionale non cita esplicitamente una categoria di beni comuni sebbene siano previsti indirettamente nel testo costituzionale. Per questo Paola Chirulli sceglie come punto di riferimento il diritto amministrativo riconoscendo la necessità di regolare il rapporto tra beni comuni e beni pubblici. In effetti, fa notare, il bene comune sembra proprio aver recuperato alcuni elementi positivi che un tempo appartenevano ai beni demaniali e che sono andati deteriorandosi, come la non alienabilità e l’uso generale. In relazione a questa necessaria distinzione Paola Chirulli evidenzia la scelta riduttiva presentata nella proposta della Commissione Rodotà : il testo prevede che i beni comuni facenti capo a persone giuridiche pubbliche siano gestiti esclusivamente dalle stesse autorità pubbliche. La proposta di Chirulli è di riservare invece un potere co-decisionale alla cittadinanza, ritenendo che la regolazione dei beni comuni richieda una sussidiarietà doverosa e non più facoltativa. Cita come esempio il Localism Act inglese, il quale prevede che l’amministrazione consideri proposte da parte di cittadini di prendere in carico la gestione di beni comuni in sinergia e supporto con le amministrazioni stesse. Altre possibilità sono formule di concessioni e donazioni, come le free schools, strutture ricevute in donazione e gestite da genitori; o anche la compilazione di elenchi di beni che potrebbero avere un interesse sociale e su cui, al momento di una eventuale vendita da parte di un privato o dello Stato, i cittadini avrebbero un diritto di prelazione. Insomma, prevedere una gestione condivisa dei beni comuni tra cittadini ed enti pubblici potrebbe essere una soluzione sussidiaria e innovativa, che superi gli escludenti sistemi tradizionali.
Superare i tradizionali schematismi
Sul problema di inclusione ed esclusione ragiona anche Maurizio Franzini, direttore del Dipartimento di Economia e Diritto della facoltà , affrontando la questione dal punto di vista del produttore, oltre che dell’utilizzatore del bene. Riportando la voce degli economisti evidenzia infatti il rischio che una piena inclusione nella fruizione di un bene possa determinarne l’estinzione. La soluzione, dice Franzoni, non deve essere il ripristino di una logica di esclusione secondo una politica dei prezzi ma un intervento più creativo dello Stato, che stabilisca un grado di sfruttamento della risorsa affinché la fruizione spontanea non la esaurisca. Dunque lo Stato torna ad avere un ruolo di regolatore: ogni cittadino sarebbe titolare di un diritto di accesso al bene comune ma lo Stato porrebbe dei limiti al suo godimento permettendo però, qui l’elemento innovativo, uno scambio di diritti a discrezione dei singoli. In tal modo il bene, fermo restando il limite posto dallo Stato, avrebbe durata garantita.
Questo sistema dovrebbe poi rapportarsi ai comportamenti dell’uomo nella società . Franzini riprende allora l’idea dell’uomo modulare di Gellner: un uomo “altruista senza oppressivi legami di comunità , capace di svolgere numerose funzioni nella società civile” lontano dunque sia dall’eccesso di individualismo sia dalle costrizioni di una comunità chiusa.
Anche Christian Iaione, caporedattore di Labsus e docente presso l’università Niccolò Cusano, affronta il tema del ruolo dello Stato proponendo il superamento della concezione di uno Stato come argine alle derive individualiste del mercato e all’opportunismo egoistico della natura umana. Secondo Iaione questa idea è un prodotto storico superabile, oggi, in favore della storia della cooperazione del genere umano, volto alla difesa dei beni comuni che giustamente sente in pericolo.
In particolare nelle aree urbane il tradizionale schematismo, spiega Iaione, proponeva due soluzioni: o l’aumento della presenza statale, frazionando il territorio per poi determinarne la circolazione e la fruizione dei beni comuni presenti, oppure la privatizzazione dei centri urbani creando delle enclosures auto-organizzate che di fatto comportava quasi ghettizzare gli spazi pubblici. Di fronte a questo aut aut si possono però individuare altre alternative che chiamino in causa i cittadini nella cura dei propri spazi e beni comuni, senza soccombere al protagonismo dello Stato o ai monopoli dei privati. Ad esempio, prosegue Iaione, è emersa in questi anni la pratica dell’arredo urbano: grazie al lavoro di gruppi informali che realizzano progetti per migliorare le infrastrutture urbane, numerosi distretti hanno conosciuto un notevole cambiamento in positivo. In cambio lo Stato riconosce un incentivo fiscale ai cittadini per il loro attivismo civico. Un altro tipo di intervento è la gestione condivisa degli spazi verdi attraverso un partenariato con associazioni e fondazioni o tramite protocolli di intesa. La cogestione vale anche per spazi culturali e altri beni e servizi della comunità , come dimostrano le esperienze del teatro Valle e del Cinema Palazzo di Roma. Anche quei sistemi che mirano a modificare comportamenti dei cittadini in funzione del raggiungimento di interessi comuni sono un esempio di sussidiarietà . Lo scopo è proprio quello di promuovere un circolo virtuoso di comportamenti e scelte responsabili fino a canonizzarli facendo sì, auspica Iaione citando Merusi, che la sussidiarietà abbia la sua prima fonte nella consuetudine.
Sebbene presenti alcune criticità questo modello ha grandi potenzialità e riconosce il ruolo e la mobilitazione del pubblico, a patto che rimangano alcuni punti fermi: quel che bisogna favorire è la collaborazione e non la competizione; l’intervento dell’amministrazione deve confermarsi primario e quello dei cittadini integrativo. In questo modo si può realizzare un welfare urbano funzionale, incentivando anche la responsabilità negli enti pubblici che dovranno confrontarsi con cittadini consapevoli ed informati in quanto protagonisti.
“Fare, scegliere, gestire, curare insieme” è infatti il “senso del communis” ricorda Gregorio Arena, presidente di Labsus e docente all’Università di Trento, chiudendo il convegno: la collaborazione e la cooperazione sono insite nel concetto di bene comune e dal momento che dalla qualità dei beni comuni dipende la qualità delle nostre vite presenti e future, è un impegno doveroso quello di averne cura e soprattutto di agire con concretezza. Infatti Arena rileva che fermarsi al dialogo senza pervenire ad una decisione finale sarebbe un rischio: potrebbe emergere una voce sola che si dica disposta a risolvere il problema, minando lo spirito di collaborazione e partecipazione attiva agli interessi della comunità .