Quella socialista rappresenta una tradizione culturale, prima che politica, che assieme all’altra grande famiglia politica e culturale del ‘9 ha rappresentato una fucina di idee, intelligenze e personalità che hanno contribuito grandemente alla costruzione delle fondamenta sociali, economiche e istituzionali del nostro Paese. In un momento nel quale si sente la mancanza di buona politica o addirittura si profetizza l’annientamento della politica a causa della insipienza della classe dirigente che pro tempore si trova a reggere le sorti della politica italiana, può avere un senso riscoprire e ripartire dal messaggio che quelle tradizioni politiche hanno ancora da offrire per affrontare le sfide del futuro.
Il terreno sul quale si vuole provare qui a misurare la permanente attualità del messaggio politico della cultura socialista è proprio quello della sussidiarietà . Della sussidiarietà sono evidenti le radici cattoliche e soprattutto è evidente come il nuovo corso della tradizione culturale e politica cattolica possa contribuire allo sviluppo e alla diffusione della vera sussidiarietà , quella che altrove si è definita la sussidiarietà ottima. Arena prima di altri ha intuito il cambio di passo in questo campo e la convergenza verso il “nostro” modo di intendere la sussidiarietà anche dal punto di vista cattolico. Meno indagato è stato il profilo dei punti di contatto tra la sussidiarietà e la tradizione culturale che si ispira ai valori del socialismo.
Le radici socialiste e liberali della sussidiarietà
Naturalmente bisogna intendersi su quale socialismo. Nella grande famiglia socialista esistono diverse correnti culturali. Quella che qui si immagina più incline e forse anticipatrice del principio di sussidiarietà è il socialismo liberale. Secondo Carlo Rosselli, infatti, il socialismo è “una tendenza verso una meta” (Bobbio) il cui raggiungimento non è oggettivamente e fatalisticamente determinato e consiste nella “attuazione progressiva della idea di libertà e di giustizia fra gli uomini”, nello sforzo di combattere “le forze del privilegio, della ingiustizia, della oppressione dei molti nell’interesse dei pochi” al fine di ottenere “una più equa distribuzione delle ricchezze e l’assicurazione in ogni caso ad ogni uomo di una vita degna di questo nome”.
A differenza delle altre tradizioni socialiste il socialismo liberale intende raggiungere lo scopo coltivando la coscienza dell’autonomia dell’individuo, la sua capacità di autodeterminazione, facendo leva sulle sue capacità , sull’autonomia e sulla libertà individuale, per innescare un processo di emancipazione personale ed economica che offra agli uomini “la possibilità di svolgere liberamente la loro personalità , in una continua lotta di perfezionamento contro gli istinti primitivi e bestiali e contro le corruzioni di una civiltà troppo preda del demone del successo e del denaro”. Per questo Rosselli considera “dignità e responsabilità primi scalini della scala che conduce dalla schiavitù alla libertà “.
Il socialismo “erede del liberalismo”
Interpretato in questo senso il socialismo è erede del liberalismo. A questo proposito Rosselli cita Giuseppe Saragat secondo il quale “L’idea di libertà non nasce col proletariato ma con la nascita dell’uomo, col primo bagliore di autocoscienza nello spirito dell’uomo. Al proletariato spetta di portare più alto e più avanti questa fiaccola che ricevuto nel moto drammatico della storia dalle classi che lo hanno proceduto”. Come la borghesia, anche quella del proletariato è stata una lotta di liberazione dall’oppressione e contro i privilegi. Le due correnti dottrinarie che si ispiravano a questi principi, quella del socialismo liberale e quella del liberalsocialismo, possono considerarsi gli anelli di congiunzione tra liberalismo e socialismo anche sul piano politico. Il socialismo può dunque essere considerato a pieno titolo come la continuazione del liberalismo, perché il metodo liberale è essenzialmente l’ «autogoverno » inteso come pratica di emancipazione. Rosselli a più riprese sottolinea l’identità teleologica, ma auspica il cambiamento del metodo del socialismo, inteso come pratica di emancipazione, che deve farsi liberale. E non è parte essenziale del metodo il liberismo in economia. Non si tratta insomma del capitalismo laburista di Schumpeter, né del laburismo capitalista di Clinton, Blair o della sinistra italiana della seconda Repubblica. Forse tracce di questa concezione si ritrovano in Obama, in Milliband e adesso in Hollande. Sarà comunque il tempo a giudicare questa nuova generazione di riformisti.
Futuro sussidiario per il socialismo liberale?
Siamo in un nuovo secolo e il proletariato non è più il concetto idoneo a identificare la constituency di una forza sociale e politica in grado di raccogliere il testimone in questa lotta di liberazione, emancipazione e abbattimento delle disuguaglianze. Non perché non esista più il proletariato, bensìperché, a giudicare dal trend dei livelli di disuguaglianza, il novero delle categorie di soggetti vittime della povertà anziché ridursi si è esteso a nuove categorie sociali prima considerate immuni dagli strali della disuguaglianza. Sia in Italia che negli USA esiste evidenza scientifica dell’enorme divario nella distribuzione del reddito: in Italia dieci italiani guadagnano quanto i 3 milioni di italiani più poveri, negli USA l’1% della popolazione ha più che raddoppiato i propri redditi negli ultimi trenta anni. E’ da questa consapevolezza che è originato il movimento We are the 99%. Qualcuno lo definisce il “quinto stato”, altri la “moltitudine”. Insomma è la “maggioranza oppressa”, la “massa dei diseguali”. Quelli che fanno numero per le riforme ispirate all’austerity, ma che poco riescono a incidere sulle decisioni reali attraverso i meccanismi della democrazia rappresentativa. Sicuramente non si tratta più di una minoranza oppressa come era il proletariato del ‘9 ed altrettanto indubitabilmente si tratta in alcuni casi di disuguaglianze inaccettabili (perché non trovano giustificazione in criteri di merito) che perdurano da tempo, ben prima che la crisi economica e finanziaria si abbattesse sulle economie occidentali (1).
Ora, una forza politica del terzo millennio che voglia dirsi socialista e liberale dovrebbe rivolgersi a questa constituency e continuare ad avere di mira come proprio scopo ultimo la giustizia sociale e l’abbattimento del divario tra ricchi e poveri. Ma dovrebbe abbracciare convintamene il metodo liberalsocialista. Perciò essa dovrebbe mirare ad abbattere la povertà non più limitandosi a redistribuire reddito o a temperare gli effetti della povertà con sistemi di welfare basati sul clientelismo assistenzialistico, bensìsviluppando pratiche capacitanti e liberatrici dal bisogno che favoriscono la mutualità , la reciprocità e l’investimento sulla ricchezza condivisa che rappresentano i beni comuni. Una persona individualmente povera che vive in una comunità coesa in cui ci si aiuta reciprocamente e ci si dedica alla manutenzione, cura e produzione di beni comuni è più ricca di una persona altrettanto povera che vive in una comunità meno prospera di beni comuni o meno incline alla cooperazione interindividuale. Vanno in questa direzione i tentativi di misurazione del benessere economico-sociale di una comunità attraverso l’individuazione di grandezze ulteriori rispetto ai meri valori economici come il capitale sociale, i beni relazionali o il volontariato (v. ISTAT, OIL BES e altri).
La giustizia sociale secondo Sen
E allora forse al socialismo del nuovo millennio tocca seguire seguire le orme di un liberalsocialista (cosìlo definìBobbio) come Amartya Sen. Secondo l’economista indiano una condizione di non benessere e dunque di “disagio” si determina ogniqualvolta sia negata alla persona la libertà di svilupparsi pienamente, cioè di affermare la propria dignità di individuo unico e irripetibile e di valorizzare i propri talenti. E’ evidente il richiamo agli articoli 3, comma 2, 4, comma 2, e 36 della Costituzione. Questa impostazione è coerente con il passaggio da una concezione redistributiva a una concezione procedurale del principio di eguaglianza e, dunque, con la natura di canone che impone alla Repubblica di agire in misura prevalente nella direzione di promuovere attraverso politiche pubbliche ad hoc le condizioni che rendono effettivi i diritti dei cittadini, in particolare quelli sociali, anziché di mero vincolo a garantire con legge diritti a prestazioni pubbliche (2).
Predisporre le condizioni affinché i cittadini, soprattutto a quelli di più giovane età , possano liberamente e individualmente scegliere di assumersi la responsabilità di curare, proteggere e conservare – per tutta la comunità e per le generazioni future – i beni comuni può contribuire a realizzare quella “fioritura della persona” che per Sen costituisce il vero fulcro della “felicità “, l’unico valore da misurare per saggiare il reale benessere di una comunità . La giustizia nella prospettiva di Sen dipende non dal trattamento riservato all’individuo dalle istituzioni o dal potere politico, bensìsoprattutto dai «legami etici e culturali che uniscono l’individuo alla società e che creano quella che si chiama atmosfera di libertà , l’ambiente complessivo nel quale le scelte individuali acquistano significato » (3).
La sussidiarietà come libertà di altro tipo
Lo sviluppo delle capacità individuali diviene più importante delle regole, procedure e istituzioni volte a garantire un trattamento equo degli individui. Per aversi realmente giustizia deve garantirsi questa “atmosfera di libertà ” e quindi prestare attenzione a che le condizioni sociali e culturali arricchiscano e non deprimano le capacità occorrenti per perseguire le scelte individuali funzionali ai progetti personali e alle aspettative dell’individuo. Solo cosìegli potrà essere consapevole di un suo eventuale malessere e di ciò che è necessario per superarlo (4). In questa ottica la povertà non viene a dipendere esclusivamente dal reddito, ma soprattutto dalle risorse effettive, materiali e immateriali, di cui l’individuo ha bisogno nella propria società per raggiungere attraverso la propria capacità d’azione il vero benessere come descritto sopra (5). Il governo e la società civile devono dunque incoraggiare la cultura della individualità attraverso politiche che mirino, con incentivi o interventi, a correggere le diseguaglianze materiali e sociali che il mercato produce (6). Diviene perciò fondamentale verificare l’esistenza di una effettiva capacità degli individui di operare con autonoma responsabilità nella società in cui vivono. E quindi per assecondare il pieno sviluppo del welfare sociale bisogna cominciare a ragionare nel senso che «la democrazia politica e i diritti civili tendono a far crescere libertà di altro tipo […] oltre quella economica proprio perché danno voce […] a chi è in condizione di miseria o è più vulnerabile » (7).
Tra le “libertà di altro tipo” deve, allora, essere annoverata anche quella che mette i cittadini in condizione condividere e cementare legami nella cura civica di beni comuni, cioè di quei beni che se impoveriti impoveriscono tutti e se arricchiti arricchiscono tutti (8). Ma nella consapevolezza che a subire in maniera più immediata gli effetti del dissipamento dei beni comuni sono proprio le fasce popolari più svantaggiate. Perché i beni comuni e i legami di cooperazione sociale che attorno ad essi si cementano, rappresentano per i più deboli e i più poveri una imprescindibile base di sostentamento e una loro eventuale distruzione o degrado può segnare il passaggio da una situazione di povertà a condizioni di non sopravvivenza.
Note:
(1) M. FRANZINI Ricchi e poveri, Egea, 21, p. 167.
(2) C. PINELLI, I rapporti economico-sociali fra Costituzione e Trattati europei, in C. PINELLI, T. TREU, La costituzione economica: Italia, Europa, Bologna, Il Mulino, 21, p. 31 e 37.
(3) N. URBINATI, Liberi e uguali. Contro l’ideologia individualista, Roma, Laterza, 211, p. 29, che cita A. SEN, Capability and well-being, in M.C. NUSSBAUM, A.K. SEN (a cura di), The Quality of life, Calrendon Press – Oxford, 1993, pp. 3-66.
(4) A. SEN, The Idea of Justice, Cambridge (Mass.), Harvard University Press, 29, pp. 1-27.
(5) A. SEN, The Idea of Justice, cit., pp. 253-26.
(6) N. URBINATI, op. cit., p. 35.
(7) A. SEN, The Idea of Justice, cit., p. 348.
(8) G. ARENA, Cittadini e capitale sociale, in Labsus.org, 5 giugno 27.