Il convegno, articolato in tre parti, ha preso avvio con un’attenta riflessione sul tema generale dei rapporti tra diritti umani e diritto internazionale, per poi proseguire focalizzando l’attenzione su due beni comuni in particolare: il patrimonio culturale e l’ambiente.
A presiedere la prima sessione è stato il giudice della Corte Internazionale di Giustizia, Abdulquawi A. Yusuf, il quale, oltre ad aver tracciato un bilancio dello stato dell’arte in materia, ha offerto alla platea il proprio punto di vista in merito al futuro dei diritti umani nei Paesi in via di sviluppo. Interessante, al riguardo, tanto il richiamo al processo di democratizzazione dei diritti umani, che – ha precisato Yusuf – ” non può essere imposto dal di fuori, dovendo piuttosto consistere in un’esigenza che nasce all’interno di una comunità ” ; quanto quello alla dimensione collettiva di tali diritti. In particolare, il giudice Yusuf ha descritto i diritti collettivi – cioè riferiti alla collettività – come la somma dei diritti umani, i quali a loro volta devono essere considerati universali e, soprattutto, indivisibili. ” E’ controproduttivo – infatti – valorizzare taluni diritti a discapito di altri, come dimostra il fatto che l’accento posto sui diritti socio-economici, piuttosto che su quelli civili e politici, in molti contesti non ha affatto contribuito ad eliminare la povertà ” .
I lavori del convegno sono poi proseguiti con la seconda sessione, presieduta dal Prof. Siegfried Wiessner, dell’Università Saint Thomas di Miami, e dedicata al tema della tutela internazionale del patrimonio culturale. In apertura, la relazione della Prof.ssa Ana Vrdojaljcak (University of Tecnology, Sidney), incentrata sull’impatto che il dissolversi delle frontiere, per effetto della globalizzazione, ha avuto dal punto di vista della dimensione culturale dei diritti umani. A seguire, inoltre, una tavola rotonda i cui temi centrali sono stati quello del ruolo dei singoli e della comunità nella conservazione del patrimonio culturale a livello internazionale, quello dei diritti delle popolazioni indigene, nonché quello – di stringente attualità – relativo al rapporto tra beni pubblici, investimenti privati e protezione internazionale del patrimonio culturale.
La terza ed ultima parte del convegno, invece, come anticipato è stata dedicata all’ambiente, bene comune per eccellenza. Moderata dal Prof. Federico Lenzerini dell’Università di Siena, la sessione ha preso le mosse dalla relazione del Prof. Ben Boer (Università di Sidney), vera autorità nel campo del diritto ambientale, il quale ha offerto alla platea un contributo dal titolo ” Land Degradation and Desertification as a Common Concern of Humanity ” . La tavola rotonda che ha fatto seguito si è poi caratterizzata per la presenza, tra le altre, della relazione del Prof. Riccardo Pavoni (Università di Siena), dedicata al tema dei rapporti tra ambiente e diritti umani, nonché di quella della Prof.ssa Emanuela Orlando (Università di Cambridge), incentrata sul rapporto tra dimensione pubblica e privata della responsabilità ambientale.
A conclusione dei lavori, le riflessioni del Prof. Francioni, il quale ha innanzitutto sottolineato come l’importanza dei beni comuni risieda anche nel fatto che gli stessi, rappresentando un interesse generale dell’umanità , corroborano l’idea per cui la diversità culturale non costituisce una forza destabilizzante della società , potendo al contrario rappresentare un incentivo al pluralismo. Quanto poi al rapporto tra ambiente e diritti umani, pur osservando come – allo stato attuale – un approccio autenticamente ” eco-centrico ” costituisca ancora un’utopia, il Prof. Francioni non ha mancato di evidenziare che in futuro potrebbero esserci dei progressi, finanche a partire dagli Stati, a patto però che questi ultimi inizino a condividere l’idea di una ” sovranità responsabile, da esercitare nell’interesse della comunità internazionale ” . Ciò si lega, d’altra parte, alla nuova dimensione temporale in cui i diritti umani tendono ad essere proiettati e studiati. L’attenzione dell’accademia, infatti, è sempre più spesso rivolta al futuro, ossia alle generazioni che verranno, nell’ottica di una responsabilità intergenerazionale.