Il consiglio, invece, è serio. Chi scrive ritiene infatti che le attività di comunicazione – le prime che, in genere, nelle organizzazioni non profit e pubbliche si è disposti a sacrificare sull’altare dei tagli – potrebbero costituire una leva di reazione strategica, un antidoto di lungo periodo agli effetti desocializzanti e depauperanti della depressione economica ed emotiva che ci minaccia.
L’ipotesi necessita ovviamente di essere illustrata.
La crisi della fiducia
I tempi e la portata di questo “ciclone” negativo hanno reso ormai evidente che quella che stiamo vivendo non è solo una crisi economica, ma una crisi anche culturale, sociale, politica. Se gli effetti dell’impoverimento economico diffuso sono sotto gli occhi – meglio sulle spalle – di tutti, e l’acuirsi delle diseguaglianze sta intaccando il benessere e il senso di sicurezza di quelle fasce medie della popolazione che si percepivano al riparo dai rischi più gravi, non meno seri e pericolosi si stanno rivelando gli effetti della crisi di identità delle agenzie culturali classiche (prime fra tutti famiglia, scuola e università ), e quella di fiducia nelle istituzioni; soprattutto nei partiti, che nelle ultime elezioni hanno cominciato ad assaggiare il sapore di una disaffezione degli elettori che sembra automatico leggere come una protesta verso gli sprechi esagerati, la mercificazione senza vergogna dei seggi e delle idee, le inconcludenze ingiustificabili di cui si è macchiata la politica italiana in questi anni.
Ricorrendo a un’immagine efficace del Censis, che ha dedicato il Rapporto 21 alla lettura delle cause del fenomeno, la natura della crisi che ci attanaglia sarebbe da individuarsi in un “calo del desiderio” diffuso in ogni aspetto della vita. A questo andrebbe attribuita la responsabilità delle “evidenti manifestazioni di fragilità sia personali sia di massa, comportamenti e atteggiamenti spaesati, indifferenti, cinici, passivamente adattivi, prigionieri delle influenze mediatiche, condannati al presente senza profondità di memoria e di futuro”.
Da una crisi di tale portata – tutte le analisi degli esperti convergono – non si potrà uscire se non a prezzo di trasformazioni strutturali. Nei sistemi dei valori e dell’economia, nelle priorità dell’agenda politica, e soprattutto nei comportamenti quotidiani della gente.
La comunicazione sociale: oltre il marketing dei servizi e delle organizzazioni…
Ora, se c’è una disciplina che per vocazione mira a provocare cambiamenti culturali e a trasformare l’ordine sociale in direzione di una convivenza più giusta e solidale, questa è proprio la comunicazione sociale. Cioè, quella comunicazione che ha per protagonisti i nuclei più intraprendenti e solidali della società civile, come i cittadini cosiddetti “attivi”, riuniti in organizzazioni non profit strutturate o in movimenti informali, le pubbliche amministrazioni che partecipano e sostengono il principio di sussidiarietà , le imprese che decidono di impegnarsi in progetti di responsabilità sociale.
A dispetto di un’opinione superficiale, ma molto diffusa, che vuole la comunicazione sociale come una brutta copia della comunicazione d’impresa ri-declinata sul non profit, o come un marketing dei servizi sociali, il significato, il compito profondo della comunicazione sociale è quello di far emergere nell’immaginario collettivo e nell’opinione pubblica diritti, dunque categorie sociali, nuovi, e di promuovere intorno a questi, mediante azioni e reti di solidarietà , inclusione e coesione.
La comunicazione sociale è provocazione, rivoluzione degli immaginari e degli ordini costituiti mediante la proposta di nuovi bisogni, e la costruzione condivisa di stili di vita e di pratiche solidali intorno a nuove emergenze, a nuovi bisogni, a soggetti svantaggiati.
… una comunicazione rivoluzionaria
Fare comunicazione sociale è perciò un’azione molto più complessa e profonda di promuovere un servizio, fare un comunicato stampa, gestire un sito (attività che possono far tutte parte strumentalmente di una strategia di comunicazione, ma che non devono essere scambiate con il fine, l’obiettivo). Fare comunicazione sociale significa invece sforzarsi di immaginare, provare a credere, che i valori e le attività della cittadinanza attiva (sia essi incarnati e promossi da singoli cittadini, da associazioni o da pubbliche amministrazioni collaborative) possano diventare, da buone pratiche individuali e del non profit, apprezzabili ma di nicchia, modelli di comportamento collettivi, abitudini e prassi degli “altri”, di quanti non sono già adesso sensibili al tema o al problema, di tutti. Significa impegnarsi a cercare, a costruire e a diffondere, storie, linguaggi, format interessanti, attraenti, convincenti, in grado di incuriosire e di parlare innanzitutto a chi il mondo del bisogno e della solidarietà non lo conosce, non lo frequenta, non lo cerca.
Interpretata in questo senso, che poi altro non è che il suo originario, la comunicazione sociale è un progetto di innovazione culturale. E’ prendersi cura del tessuto sociale di un territorio, ascoltando le voci più nuove e marginali del bisogno, per proporre all’attenzione pubblica, generale, mediante il racconto della propria esperienza, mediante la forza dell’esempio, nuove forme di convivenza.
Investire in comunicazione è costruire una società più giusta e solidale
Dovrebbe apparire più chiaro adesso perché l’affermazione iniziale non era una provocazione. Nel momento in cui il paese si rende conto che per andare avanti servono nuovo idee, nuovi modi di concepire e gestire la res publica, i cittadini attivi – e soprattutto il non profit, che di questo mondo rappresenta la componente più organizzata – hanno l’opportunità di proporsi sulla scena pubblica anche come autori di proposte di rinnovamento culturale. Per far questo, è necessario che acquisiscano piena consapevolezza di possedere, accanto a quella sociale (che gli è più facilmente riconosciuta), una funzione culturale altrettanto importante, e di investire nella comunicazione di questa identità : appunto, adoperandosi per far conoscere la propria storia (soprattutto nel caso di organizzazioni che hanno decenni di esperienza alle spalle), nuovi stili di vita, le innumerevoli buone pratiche di cui i volontari sono promotori nei territori, gli esempi di cura dei beni comuni, le molteplici modalità di interpretare e di vivere la cittadinanza che si realizzano nelle, e intorno alle, associazioni. E, soprattutto, fa comprendere agli italiani che non praticano la sussidiarietà e la solidarietà la convenienza di queste soluzioni.
E se si cominciasse a mettersi in rete per fare comunicazione sociale?
Si tratta, ovviamente, di una mission molto ambiziosa. Per la quale occorre una nuova acquisizione di consapevolezza, e la convinzione e la forza di raccontarsi e di lasciarsi raccontare dai media. E’ quasi inevitabile immaginare che in uno sforzo di tal tipo un ruolo strategico potrebbe essere giocato dalle organizzazioni più grandi del Terzo Settore, e soprattutto dalle loro reti, che, rappresentando, come si è detto, la parte più strutturata della cittadinanza attiva, potrebbero fungere sia da catalizzatori e incubatori di progetti importanti, sia da interlocutori più adeguati con le redazioni dei mass media.
La strada non è scontata, né facile. Ma che qualcosa stia cambiando, in questo senso, nella mentalità del non profit, si può forse legittimamente cominciare a sperarlo, se un progetto imponente come FQTS-Formazione Quadri del Terzo Settore ha inserito da quest’anno fra le proprie attività di rilievo un Laboratorio di Comunicazione Sociale, e se il tema della comunicazione torna ad essere protagonista (come ha sperimentato più volte in pochi mesi chi scrive) nei tavoli di lavoro di diverse associazioni.