Il primo autore ad essere analizzato è inevitabilmente Garrett Hardin, l’ecologo statunitense che, nel 1968, pubblicò il suo articolo dal titolo ” La tragedia dei beni comuni ” nel quale veniva affrontata l’inevitabile rovina che sarebbe toccata, di lìa poco, ai ” common pool resources ” . Il sistema capitalista, infatti, secondo Hardin, non è in grado di autoregolarsi e, pertanto, tutto ciò che è collettivo è destinato ad essere distrutto dall’avidità del singolo che infatti ” tenta di massimizzare il suo profitto senza curarsi della sorte del bene ” . La soluzione suggerita dall’autore è da ricercarsi, dunque, nel diritto: solo garantendo diritti di proprietà ed eliminando la comunione del bene sarà possibile ovviare alla distruzione dei beni comuni.
La speranza di Elinor Ostrom
In risposta alle teorie di Hardin, Nespor espone il pensiero di Elinor Ostrom, la studiosa premio Nobel per l’economia nel 2009 che, negli anni ’70 si dimostrò critica nei confronti dell’inevitabile tragedia dei beni comuni: seppure ritenesse comunque il sistema capitalista un avversario ostile dei beni comuni, credeva che la tragedia pronosticata da Hardin fosse tutt’altro che inevitabile. I beni comuni sono infatti una miriade e molti di questi non sono affatto in pericolo. Ma la condizione per rendere evitabile la distruzione di tali beni è quella che impone agli utenti del bene comune di conoscersi, di comunicare e di prendere consapevolezza degli effetti delle loro scelte. Emerge pertanto la responsabilità politiche che la studiosa introduce, consegnando alle amministrazioni il compito di rendere il bene comune un protagonista delle comunità e delle relazioni tra cittadini.
Carol Rose e le “risorse comuni”
Nel 1986, Carole Rose, sulla base degli studi di Hardin e Ostrom, afferma che il ” libero accesso a determinati beni non solo non ne comporta il depauperamento o la distruzione, ma produce benefici economici e sociali per l’intera collettività ” . La tragedia ipotizzata dagli autori analizzati in precedenza, secondo Nespor, diviene pertanto una brillante ” commedia ” . Tali beni infatti sono in grado di generare valore per l’intera collettività : essi sviluppano commercio, scambio di beni, produzione e risultano, in definitiva, in grado di accrescere il benessere complessivo.
Nascono nuovi beni comuni
L’ultimo autore ad essere analizzato da Nespor è Charlotte Hess che, negli anni ’90, percepìil bisogno di ampliare il panorama dei beni comuni, andandovi ad includere le innovazioni tecnologiche che in quel periodo si stavano susseguendo. La proprietà intellettuale e lo sviluppo economico che esse generavano hanno imposto agli studiosi dei beni comuni di comprendere il cambiamento che tale fenomeno aveva subito da quando Hardin ne ipotizzò l’imminente distruzione.
Pertanto, risulta necessario comprendere che tale fenomeno merita una trattazione oggettiva che sappia valutare con attenzione il contesto nel quale i beni comuni si sviluppano e vengono analizzati. In particolare, Charlotte Hess compìuna distinzione importante: parlando di ” nuovi beni comuni ” , occorre distinguere i beni nuovi in quanto appena ” scoperti ” da quelli che risultano una novità in quanto appena inseriti all’interno della grande famiglia dei beni comuni. La distinzione tra ” Wikipedia e le aragoste del Maine ” è quanto mai opportuna. Ciò che è certo, però, in conclusione, è la necessità di seguire quanto espresso da Stefano Rodotà in occasione delle campagne referendarie del 2011: ” se tutto diventa bene comune niente può essere davvero giuridicamente protetto ” .
Leggi anche:
- Il territorio bene comune degli italiani
- Una scuola di beni comuni per i citoyens di domani
- Liberare energie mediante la cura condivisa dei beni comuni