Molto spesso il termine resilienza viene utilizzato come un sinonimo di resistenza ed applicato in campi molto diversi tra loro.
Secondo l’Enciclopedia Treccani in ecologia la resilienza indica ” La velocità con cui una comunità (o un sistema ecologico) ritorna al suo stato iniziale, dopo essere stata sottoposta a una perturbazione che l’ha allontanata da quello stato; le alterazioni possono essere causate sia da eventi naturali, sia da attività antropiche ” . Invece, ” nella tecnologia dei materiali, [la resilienza indica] la resistenza a rottura dinamica, determinata con apposita prova d’urto”.
E’ però in campo psicologico che la resilienza assume un’accezione che si discosta almeno in parte dalle altre definizioni. Infatti, ” la resilienza psicologica è la capacità di persistere nel perseguire obiettivi sfidanti, fronteggiando in maniera efficace le difficoltà e gli altri eventi negativi che si incontreranno sul cammino ” .
In tutta questi casi, non si tratta di una pura e semplice capacità di resistere, ma di fare fronte con successo alle difficoltà , facendo tesoro di quanto accaduto e volgendolo in positivo. La condizione di equilibrio che ne deriva non sarà confrontabile con lo stato precedente, perché avrà incamerato l’esperienza traumatica.
L’aspetto interessante è che cosìconcepita, la resilienza si applica a contesti molto diversi tra loro: dalle persone alle comunità , dal business alle istituzioni, dall’economia agli ecosistemi. Il termine viene utilizzato per indicare la capacità delle teorie neoliberiste di perseverare anche davanti ai fallimenti, come suggerito dal testo di Vivien Schmidt e Mark Thatcher (Resilient Liberalism in Europe’s Political Economy, Cambridge, Cambridge University Press, 2013), ma anche per descrivere la capacità di sopravvivenza di una barriera corallina ai cambiamenti climatici o di un software ai virus informatici.
Beni comuni e pratiche di resilienza
Il campo di applicazione del concetto di resilienza è molto vasto, ma ci sono ambiti nei quali il suo utilizzo non ha ancora prodotto tutti i risultati possibili. Si tratta delle pratiche di resilienza messe in atto dalle comunità umane in contesti di crisi quale quello attuale. In questo caso non si è in presenza di una guerra o di un disastro ambientale, ma della crisi di un modello economico e prima ancora culturale.
E’ per questo che in giro per il paese è facile individuare vere e proprie ” pratiche di resilienza ” , spesso legate alla manutenzione civica di beni comuni, attraverso le quali i cittadini cercano di sperimentare formule nuove di convivenza e di relazione con le istituzioni, come evidenziato dai molti casi di cui ci occupiamo su questa rivista. Le esperienze di cittadinanza attiva possono infatti essere interpretate come vere e proprie ” pratiche di resilienza ” messe in atto non tanto al fine di sopravvivere in tempi di crisi, quanto di utilizzare la crisi – politica, economica, istituzionale – per sperimentare soluzioni alternative a quelle che si sono dimostrate inefficaci.
Si va dai cassaintegrati che recuperano un senso di comunità mettendo in piedi un orto urbano e lanciando una sfida al modello liberista, ai genitori che decidono di trascorrere il fine settimana a ripulire una scuola o ai cittadini che scelgono di prendersi cura degli spazi pubblici.
La gestione condivisa dei beni comuni proposta da Labsus rientra a tutti gli effetti nelle pratiche di resilienza. Il regolamento sulla collaborazione tra cittadini e istituzioni rappresenta il vertice di un nuovo modello di amministrazione condivisa che è stato in grado di fare tesoro degli errori del passato e avanzare una proposta alternativa.
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