Nella vita sia degli individui, sia delle organizzazioni, ogni tanto è bene fermarsi a riflettere sul cammino compiuto e su quello ancora da compiere cercando, per quanto possibile, di imparare dall’esperienza.
Lo facciamo anche noi in questa ultima newsletter del 2015, un anno per noi di grande crescita, di impegni e di soddisfazioni. E lo facciamo provando a ragionare sulla nostra ” ragione sociale ” , sul concetto stesso di sussidiarietà , nella prospettiva propria del ” laboratorio di servizio ” , quale noi siamo, luogo di sperimentazione e analisi non fini a se stesse, bensìstrumenti di cambiamento.
Dopo dieci anni di intensissimo lavoro a tutto campo sui temi che ci caratterizzano, che idea ci siamo fatti della sussidiarietà ? Qual è la sua vera essenza? Cosa intendiamo, insomma, quando diciamo che l’amministrazione condivisa o il nostro Regolamento per la cura dei beni comuni sono fondati sulla sussidiarietà ?
Per rispondere bisogna, come spesso accade, risalire al significato originario del termine sussidiarietà , che nell’esercito dell’antica Roma veniva usato per indicare le truppe sussidiarie, quelle che non entravano in battaglia fin dall’inizio, ma venivano tenute in disparte per poi entrare in campo successivamente in aiuto (subsidium) dei commilitoni che già stavano combattendo.
Dall’aiuto reciproco nasce una relazione
Qui, forse, sta la risposta che cerchiamo. Perché l’aiuto reciproco instaura una relazione. Potremmo dire quindi che l’essenza della sussidiarietà , ciò che rende veramente unico questo concetto, è la creazione di una relazione di condivisione. Non una qualsiasi relazione, una delle tante, anche conflittuali, che si possono intrecciare vivendo in una società . Perché quelle fondate sulla sussidiarietà sono relazioni che in virtù del significato originario del termine stesso non possono mai essere conflittuali. Se lo diventano, vuol dire che non c’è più sussidiarietà ma competizione, che è anch’essa una modalità di relazione con gli altri.
Perciò quando diciamo che l’amministrazione condivisa o il nostro Regolamento sono fondati sulla sussidiarietà stiamo in realtà dicendo che quel modello organizzativo e quella normativa sono fondati su relazioni in cui si condividono responsabilità e risorse per raggiungere un obiettivo comune. Le legioni romane univano le forze per sconfiggere i nemici di Roma, oggi cittadini e amministrazioni si alleano per affrontare insieme gli enormi problemi derivanti dalla complessità dei nostri sistemi politici, economici e sociali, cui nessuno può pensare di far fronte da solo.
Un nuovo rapporto fra le persone e le cose
Riprendendo le domande iniziali possiamo dunque rispondere che promuovere la sussidiarietà significa promuovere ovunque, in tutti i campi, la nascita di relazioni fondate sulla condivisione di responsabilità e risorse, in vista di un obiettivo comune.
Per quanto ci riguarda, finora abbiamo preso in considerazione soprattutto il ruolo della sussidiarietà nel creare un’alleanza fra cittadini e amministrazioni realizzando il modello organizzativo dell’amministrazione condivisa, grazie al Regolamento per la cura dei beni comuni. Ma in realtà la valenza relazionale di questo principio risalta anche sotto altri profili, fra cui in particolare il rapporto fra le persone ed i beni comuni.
L’importanza di tale ruolo era già stata messa in evidenza da Carlo Donolo nel 2010 nel suo primo editoriale su Labsus in cui, dopo aver detto che ” … i beni comuni sono centrali per ogni processo sostenibile, per lo sviluppo locale, per la coesione sociale, per i processi di capacitazione individuale e collettiva ” affermava testualmente che ” la stessa sussidiarietà è in primo luogo capacitazione alla gestione di beni comuni ” .
Bisogna ” formare ” alla gestione condivisa dei beni comuni
Perché secondo Donolo la sussidiarietà consiste nel fornire le competenze necessarie ( ” capacitare ” ) alla ” gestione di beni comuni ” ? Perché, se è vero che i beni comuni sono centrali per la qualità delle nostre vite come individui e come collettività , è anche vero che non possediamo istintivamente le competenze necessarie per gestire tali beni, come le possediamo invece per per gestire i beni di nostra proprietà . Bisogna in altri termini ” formare ” alla gestione dei beni comuni, che essendo per definizione beni condivisi richiedono per essere gestiti competenze che in una società fondata sul diritto di proprietà (e quindi sull’esclusione anziché sull’inclusione) non sono molto diffuse.
Come s’è appena visto, applicare la sussidiarietà significa creare relazioni fondate sulla condivisione di responsabilità e risorse. La capacitazione alla gestione dei beni comuni fornita dalla sussidiarietà consiste pertanto nell’insegnare come si creano relazioni fondate sulla condivisione per la gestione dei beni comuni.
I patti, strumenti giuridici della sussidiarietà
Nel suo editoriale del 2010 Donolo definisce la sussidiarietà come capacitazione alla gestione dei beni comuni, ma la sua definizione si applica sicuramente anche al grande tema della cura e della rigenerazione dei beni comuni, perché anche la cura (anzi, soprattutto la cura) richiede condivisione di responsabilità e di risorse. Non a caso, del resto, il cuore del nostro Regolamento sono quelli che si potrebbero definire gli ” strumenti giuridici ” della sussidiarietà , i patti di collaborazione o, come forse meglio si dovrebbero definire, di condivisione, perché il loro scopo è la creazione di relazioni di condivisione fra cittadini e amministrazione.
La sussidiarietà fornisce cosìsia gli strumenti giuridici, sia le competenze (capacitazioni) necessarie per creare quelle relazioni di condivisione di responsabilità e di risorse che rendono possibile la cura dei beni comuni da parte di cittadini e amministrazioni alleati fra di loro.
Per i beni privati l’egoismo è una garanzia
Ma perché ci vogliono competenze e strumenti particolari per potersi prendere cura dei beni comuni? Nessuno si sogna di dire che bisogna formare alla cura dei beni privati o pubblici o che ci vogliono competenze particolari, perché si dà per scontato che i proprietari di questi beni sappiano perfettamente quello che devono fare per prendersene cura. D’altronde il proprietario è sicuramente interessato a mantenere il bene in buone condizioni per poterlo usare, perché se non lo fa lui non lo fa nessun altro. L’egoismo del proprietario, privato o pubblico che sia, in questo caso è una garanzia di buon mantenimento dei beni.
Ma il problema è che i beni comuni si possono usare anche se non si è proprietari. I beni comuni infatti essendo beni per definizione condivisi non hanno proprietari ma solo utilizzatori che, in quanto tali, non hanno interesse ad impegnarsi a mantenere il bene in buone condizioni per poter continuare ad usarlo. L’egoismo degli utilizzatori nel caso dei beni comuni è una garanzia del loro logoramento, non del loro mantenimento.
Il problema è la scissione fra uso e possesso
Il punto centrale quando si parla dei beni comuni è la scissione fra uso e possesso, perché mancando la proprietà di tali beni sembrano mancare sia le competenze necessarie per prendersene cura, sia soprattutto l’interesse a farlo.
Anche nella società della condivisione si condivide l’uso di beni che non si possiedono. Anzi, è proprio una delle caratteristiche della sharing economy, della società della condivisione, il fatto che l’uso sia scisso dal possesso e sia ciò che veramente conta, perché in tale modello di società è più importante usare che non possedere.
Ma nella società della condivisione si usano beni di cui qualcuno è proprietario e dunque si prende cura. Nel car sharing si noleggia un’auto che una società si preoccupa di mantenere in buone condizioni. In Bla-bla car c’è un privato che mette a disposizione la propria auto in cambio di un vantaggio economico e che tiene la sua auto in ordine. La stessa cosa succede nello scambio di case e nelle tante altre esperienze che danno vita a questo nuovo modello di economia e di società , in cui quello che viene condiviso con altri soggetti è l’uso di beni, mentre la loro proprietà non lo è affatto. Si tratta di beni privati che diventano di uso collettivo, ma essendo privati qualcuno se ne prende cura perché egoisticamente è interessato a farlo.
Lo strano caso di cittadini che non sono mossi dall’egoismo
Il punto di contatto importante fra la società della condivisione e i beni comuni è dato dal fatto che in entrambe le situazioni l’uso è più importante del possesso. Ma nel caso dei beni comuni, non essendoci nessun proprietario, nessuno è interessato alla manutenzione dei beni, mentre tutti sono interessati al loro uso.
Ecco perché per i beni comuni ci si deve porre il problema di chi e come si può prendere cura di loro. Non essendoci proprietari, non dovrebbe esserci nemmeno un interesse egoistico alla loro manutenzione. E invece le centinaia di casi raccolti nella nostra sezione Beni Comuni e l’esperienza della diffusione del Regolamento in questi ultimi due anni circa ci dimostrano che esistono persone che si prendono molta cura dei beni comuni materiali e immateriali presenti sul territorio dove vivono, pur non essendo né potendone mai diventare proprietari.
Volontari e cittadini attivi, testimoni che un altro mondo è possibile
D’altro canto queste esperienze non dovrebbero sorprenderci, perché da almeno un secolo abbiamo nel volontariato un altro caso di scissione, non fra possesso e uso come per i beni comuni, bensìfra appartenenza e cura. E’ infatti considerato normale prendersi cura delle persone che fanno parte della propria cerchia familiare, esattamente come è considerato normale prendersi cura dei beni di cui si è proprietari.
I volontari sono delle eccezioni rispetto a questa regola dell’appartenenza familiare, cosìcome i cittadini attivi lo sono rispetto alla regola della proprietà , ma entrambi dimostrano con il loro comportamento che un altro modo di intendere i rapporti con le persone e con i beni è possibile.
Un modo fondato sulla condivisione di responsabilità e risorse per un obiettivo comune, cioè fondato, più semplicemente, sulla sussidiarietà .
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