Un’occasione per favorire la valorizzazione di questi immobili pubblici di grande pregio storico e paesaggistico, sembra essere data dall’Agenzia del Demanio e Difesa Servizi S.p.a. con il progetto Valore Pese-Fari che, con dei bandi di gara, ne promuove la concessione.
Valore Paese-Fari si inserisce nel circuito di Valore Paese, progetto per la valorizzazione del patrimonio immobiliare pubblico italiano attraverso la sinergia tra i settori del turismo, dell’arte e della cultura, dello sviluppo economico e della coesione territoriale. Il bando, che verrà pubblicato a settembre per la concessione di venti ” gioielli del mare ” , segue l’edizione del 2015 che ha visto la recente aggiudicazione di nove degli undici fari proposti sul mercato nell’ottobre scorso, per un investimento di circa 6 milioni di euro per riqualificare le strutture, una ricaduta economica complessiva prevista di circa 20 milioni di euro e un conseguente risvolto occupazionale di oltre cento operatori. Un incasso per lo Stato di oltre 340mila euro di canoni annui, che ammonterà a circa 6,8 milioni di euro per tutto il periodo di affidamento, previsto per un massimo di 50 anni.
Non solo numeri
In linea con il Piano strategico del turismo 2020 e con la Programmazione comunitaria 2014-2020, il recupero del patrimonio pubblico dismesso su cui si fonda il progetto Valore Paese-Fari è inteso in una prospettiva di partenariato pubblico-privato, non più semplicemente come costo per la collettività , ma anche come significativa leva di sviluppo territoriale, sociale e di rilancio del sistema economico.
I fari potranno essere riqualificati con un progetto imprenditoriale innovativo e sostenibile, capace di accogliere attività turistiche e ricettive sul modello della lighthouse accomodation, o iniziative ed eventi di tipo culturale, sociale, sportivo, con lo scopo di attivare le economie locali a beneficio della cittadinanza. Sul sito dell’Agenzia del Demanio si legge, inoltre, che lo scopo ultimo del progetto è arricchire il patrimonio pubblico di strutture rimesse a nuovo e riconsegnate alla comunità .
Non c’è alcun dubbio sul fatto che questo bando sia un modo per sottrarre dei beni pubblici al degrado, ma probabilmente qualcuno rifletterà su come occasioni come queste rischino, in realtà , di favorire lo sfruttamento di certe strutture nell’interesse del bene privato, piuttosto che collettivo. La concessione, come strumento contrattuale, è sia un modo di acquisto di diritti reali, sia una fonte di obbligazioni. Da un lato, può comportare restrizioni da parte delle amministrazioni nello svolgimento delle attività oggetto di concessione seppur il concessionario versi all’amministrazione concedente un canone, arrivando ad esercitare, ove previsto dalla legge, il diritto di riscatto, che comporta la risoluzione del contratto e il trasferimento degli immobili all’amministrazione. Dall’altro, il concessionario diviene titolare di privilegi o esclusive che, spesso, l’amministrazione concedente non riesce a controllare.
C’è bisogno di costruire una nuova cultura
La riflessione probabilmente dovrebbe scaturire a monte: perché per interrompere il processo di degrado di certi beni immobili e ridurre i costi di gestione e manutenzione si è prediletto la concessione, come strumento legislativo a norma dei rapporti di partenariato tra pubblico e privato? Perché non attingere dal dibattito sull’amministrazione condivisa, espressione di un modello collaborativo e non centralistico in cui i cittadini sono riconosciuti attori chiave nella cura e nella gestione diretta di beni comuni, dando corpo al concetto finalistico dell’interesse generale? Seppur la valorizzazione di un bene metta in atto un processo tangibile di rafforzamento di identità locale, ricostruendone legami di comunità , il processo richiede innanzitutto la ” costruzione ” di una (nuova) cultura (G. Arena, 2006). E, quindi, salpato il palangaro si slamano altre considerazioni: perché, se la Costituzione italiana riconosce, all’art. 1, la sovranità del popolo che la esercita nella forma e nei limiti della stessa, all’articolo 118, il principio di sussidiarietà orizzontale, lo Stato sceglie di non ” investire ” sul capitale sociale? Perché i cittadini stessi non colgono l’occasione di restituire dignità a questi umili manufatti, circondati da un alone di vulnerabilità che sembra nascere dall’agonia dello Stato?
Certamente il processo richiede tempo. Tempo per informare e informarsi, ma perché, anziché adottare lo strumento del bando di gara per valorizzare fari, torri ed altri edifici costieri, non si predilige il patto di collaborazione? Il patto, rispetto all’accordo, corresponsabilizza i soggetti contraenti, è inclusivo, paritario e una garanzia per la durabilità del progetto.
I Ministri già si pongono l’obiettivo di ampliare al triennio 2016-2018 la rete degli immobili costieri da recuperare. L’augurio è quello che, leggendo il rischio di una inaspettata esternalizzazione della privazione degli immobili messi a bando, si cerchi un confronto con professionisti formati alla gestione condivisa dei beni comuni, come coloro che hanno seguito la SIBEC – Scuola italiana Beni Comuni, per dare una risposta più efficace e, perché no, anche fantasiosa alla questione di interesse generale che ruota attorno a ” i guardiani del mare ” .
Ah, voi che di bolina battete le strade del mare [..] voi che navigate, se una volta sola, una soltanto, avete gioito alla vista di un faro mediterraneo e avete un gruzzolo da parte, regalate il poco che basta a restituire dignità a quel nobile manufatto. Non per comprarvelo, ma per gratitudine.
” Il Ciclope ” – P. Rumiz
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